Condividi

Sarà il secolo dei populismi? Ecco da dove e perché nascono

Pubblichiamo il testo dell’intervento del politologo francese Marc Lazar all’assemblea della Cida sui populismi del nostro secolo che, a suo giudizio, nascono dalla crisi delle classi dirigenti e dell’Europa

Sarà il secolo dei populismi? Ecco da dove e perché nascono

Di che si tratta quando usiamo questa parola, “populismi”, sicuramente troppo diffusa? Parlo dei movimenti con un leader carismatico che esaltano il popolo come una entità unita, portatrice in quanto popolo di verità, che rigettano le élite, che rifiutano l’Europa, che odiano gli immigrati e i migranti, e infine pensano tutto secondo un manicheismo brutale ma efficiente: si/no, buono/cattivo, noi e loro. Ciascuno di noi ha la sua idea su questi movimenti e di questo non voglio parlare. 

Ci sono tante spiegazioni alla crescita dei populismi. Ma in questa sede indicherò tre elementi che hanno appunto un legame con quello che vi riunisce oggi. Se c’è una crescita dei populismi è perché c’è una profonda crisi delle classe dirigenti, una crisi del rapporto tra cittadini, imprese private e amministrazione pubbliche e ovviamente una crisi dell’Europa.

Quando si parla di crisi delle classe dirigenti, dobbiamo chiarire subito che non si tratta solamente della classe dirigente politica. Ma dell’insieme delle classe dirigenti, cioè finanziaria, imprenditoriale, amministrativa, mediatica, accademica, sindacale ecc. sia a livello nazionale sia a livello europeo. In altri termini, e scusate questa franchezza, la sfiducia, che a volte arriva fino all’odio, ci coinvolge tutti noi riuniti simbolicamente in questo palazzo della Camera dei Deputati (un luogo che appunto è contestato dai populisti, che lo denunciano come un luogo di potere della “casta”), gli imprenditori, i politici, i responsabili sindacali, gli professori ma anche voi manager.

Viviamo in Italia ma anche in molti altri paesi europei, fra cui il mio, la Francia, una situazione paradossale: da una parte c’è l’aspettativa anzi la ricerca di leader, perché siamo in una congiuntura incerta e abbiamo bisogno di un riferimento chiaro, ma dall’altra c’è una profonda sfiducia nei confronti delle élites. Una delle grande sfide è dunque di ricostruire la fiducia per le élites: questa ricostruzione presuppone efficienza, credibilità, responsabilità. Ma c’è una certezza: non si potrà più ripensare il rapporto tra élites dirigente e popolazione con un modello top-down, verticale insomma, ma con un misto di verticalità e di orizzontalità. Come si dice, siamo passati dal government alla governance. E di questo punto che il vostro Manifesto «Manager per la nuova Europa, Un manifesto per i valori, impegni, proposte» mi sembra importante.

Perché indica una voglia di partecipare a un doppio lavoro. Da una parte di essere coinvolti nella ricostruzione delle classe dirigenti in Italia ovviamente ma anche in Europa, perché è detto in questo Manifesto che i manager non hanno solamente un ruolo nelle loro imprese o nel settore pubblico ma hanno una responsabilità più ampia per la società impegnandosi per rispondere alle grande sfide epocali, per esempio il lavoro, lo sviluppo sostenibile e l’Europa. Quello che proponete è una forma di diversificazione e di allargamento delle classi dirigenti.

Dall’altra appunto si tratta di ricostruire la fiducia fondata su valori comuni (a proposito delle risorse umane, dell’eguaglianza delle opportunità, dell’etica dei manager, della loro necessaria esemplarità) che vanno oltre la solo logica del mercato. In altre parole, è una proposta di contributo dei manager alla ricostruzione del tessuto sociale, del sistema paese e in generale dell’Unione Europea. Si potrebbe dire ovviamente che questa necessità che avete avuto di scrivere un Manifesto di questo tipo dimostra la profonda crisi della rappresentanza politica perché normalmente è il ruolo dei politici di fare questo lavoro. Ed è vero. Ma nello stesso tempo, la vostra azione mi sembra la prova che esiste in Italia come in tanti altri paesi europei alcuni settori della società che prendono le cose in mano, e questo è un buon segno, anzi un segno di grande vitalità democratica, mentre tanti osservatori si lamentano in continuazione sulla cosi detta scarsa partecipazione. Al contrario c’è una volontà di partecipare accanto o fuori dei tradizionali canali di partecipazione. Ma questa esigenza ha, al mio avviso, conseguenze importante per i manager.

E ci porta al mio secondo punto. Il Manifesto è portatore di una grande esigenza e responsabilità per i manager in un contesto di una crisi del rapporto tra cittadini, imprese private e tra cittadini e amministrazione pubbliche. Non è ovviamente la stessa crisi perché dal settore privato si aspetta sopratutto lavoro e specialmente in Italia per i giovani che non trovano un posto di lavoro (la fuga dei cervelli è un dramma nazionale) e anche le donne che hanno grande difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro. Per il settore pubblico si aspetta prima di tutto efficienza, qualità del servizio e un personale che sia reclutato sul merito, tre aspetti che rimangono molto problematici in Italia malgrado le diverse e coraggiose riforme dell’amministrazione pubblica di cui quella della ministra Madia.

Il Manifesto tocca anche questo argomento parlando di avere, cito, “un orientamento generale, una bussola” e di favorire “l’inclusione sociale”. Propone anche di “accorciare le distanze fra dirigenti pubblici e privati”, un tema che mi sembra cruciale a condizione però che sia preservata la specificità dei due settori, il privato che ha le sue obiettivi, e il pubblico che deve modernizzarsi conciliando l’efficienza con la sua missione di servizio pubblico che ha volte ha e avrà sempre un costo (pensiamo per esempio all’educazione, alla ricerca, alla cultura, tre attività determinati che al mio parere non possono essere organizzate solamente secondo le regole del New management). Ma le piste indicate nel Manifesto per uscire dalla separazione classica che esiste tra settore privato e pubblico spesso all’origine di incomprensioni, malintesi e a volte di polemiche, e al contrario per avvicinare i manager del privato e del pubblico sono stimolante. Sicuramente nel futuro si dovrebbe pensare a scambio di esperienze ma anche forse pensare a favorire passaggi di un settore di attività all’altro.

Infine quello che mi ha colpito molto è la continua insistenza sulla dimensione europea. L’Unione europea è in crisi lo sappiamo tutti. Una gravissima crisi che minaccia anche la sua esistenza. Crisi che ha tante cause di cui non ho il tempo di parlare ma che viviamo ogni giorno. Voi fatte una scelta chiara: difendete con questo Manifesto una Europa aperta contro quelli che oggi fanno la scelta del ripiegamento e vi proponete come manager di contribuire a rilanciare questa Europa. E non solo a parole. Ci sono anche atti. Voi proponete un Osservatorio sulla dirigenza europea nell’Unione Europea, a European Observatory on Management. E un bel progetto, concreto e utile perché l’idea se capisco bene e di costruire un spazio europeo dei manager. Sara una prima tappa, e dopo si potrebbe pensare a altre iniziative. Per esempio, il presidente Ambrogioni ha fatto riferimento alla generazione Erasmus, ma perché non si potrebbe pensare a un Erasmus dei manager? Mi spiego un po’.

Oramai durante i loro studi gli studenti che vogliono essere manager hanno la possibilità di andare in altre scuole o Università europee per formarsi e apprendono molto da questo periodo fuori del loro paese di origine, a contatto con un’altra concezione dell’educazione e con una cultura diversa. Ma dopo nel loro lavoro hanno poche opportunità di contatti europei salvo se lavorano in compagnie a dimensione europea e internazionale. Allora perché non si potrebbe fare una Scuola dei manager europei, a School of European Managers? Questa scuola sarebbe destinata a quelli che sono in attività ma che potrebbero beneficiare di un periodo di formazione permanente con manager del privato e del pubblico di diversi paesi europei. Lo so che ci sono ostacoli enormi : la formazione permanente non è organizzata di maniera omogenea secondo le imprese e le amministrazione pubbliche nello stesso paese e da un paese all’altro, ci sarebbe problemi di finanziamento ma anche di lingue ecc.

Ma oggi, facciamo un po di sogni con questo Manifesto o meglio si cerca di inventare quello che alcuni studiosi chiamano piccole utopie o utopie minore, non le grande utopie del Ventesimo secolo che sono state drammatiche. In un periodo come quello presente, bisogna impegnarsi e appunto proporre queste piccole utopie, indicare alla gente che non c’è solo il discorso della paura, della nostalgia del passato supposto essere stato bellissimo, del ripiegamento su se stesso, della negatività. C’è uno spazio anche per bei progetti, per la speranza, per un futuro, e il vostro Manifesto è un contributo importante.

Commenta