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Quegli anni accanto all’Avvocato Agnelli, cittadino del mondo ma molto legato all’Italia

Dieci anni fa moriva Gianni Agnelli – In questa testimonianza Ernesto Auci, che lavorò al suo fianco in Fiat, ne ricorda aspetti inediti: la sua passione per La Stampa, il ruolo che immaginava per Montezemolo, l’idea del Sole 24 Ore, i problemi di Tangentopoli, la diffidenza verso Silvio Berlusconi, la fiducia nell’euro (in dissenso con Romiti)

Quegli anni accanto all’Avvocato Agnelli, cittadino del mondo ma molto legato all’Italia

Ho incontrato l’avvocato Agnelli l’ultima volta nel dicembre del 2002. Ero stato designato come amministratore delegato de La Stampa, il giornale non della Fiat, ma il suo personale manifesto quotidiano di un Paese libero, evoluto, attento alle vicende internazionali. Era già molto malato e mi ricevette nella sua camera da letto. Sempre vigile e curioso delle cose del mondo parlammo de La Stampa, della quale fui invitato a salvaguardare le radici culturali e la lunga e gloriosa tradizione di alta professionalità giornalistica, ma parlammo anche della Fiat che stava attraversando un periodo di crisi molto acuta e del ruolo che Montezemolo, che stava riscuotendo grandi successi con la Ferrari, avrebbe potuto avere nella rinascita dell’azienda.

Avevo incontrato Agnelli per la prima volta nel 1975 quando era presidente della Confindustria ed io ero componente del Comitato di redazione de Il Sole 24 Ore. Il giornale stava allora cominciando ad uscire dalla sua dimensione puramente tecnica di bollettino delle quotazioni, per acquisire quella di un organo di informazione per tutta l’economia italiana. Per proseguire su questa strada avevamo bisogno di investimenti, ma soprattutto dell’accordo dell’editore a lasciare una totale autonomia alla redazione così da poter conquistare quella credibilità che è presupposto fondamentale della possibilità di attirare nuovi lettori. Chiesi quindi all’Avvocato se la Confindustria aveva intenzione di tenere Il Sole 24 Ore come un proprio house organ, un foglio di schieramento, come l’Unità o il Popolo, oppure se aveva la voglia ed il coraggio di provare a dare all’economia italiana un organo di informazione indipendente “guardiano del mercato” più che portavoce degli interessi della confederazione degli industriali. Agnelli quasi si offese per questa impertinenza e rispose che Confindustria non aveva alcun bisogno di un house organ, mentre il nascente mercato italiano, per affermarsi nel mondo, aveva bisogno di una informazione libera ed affidabile. ” Provate a farla – disse – se ne siete capaci”. Lo facemmo ed Il Sole che nel 1975 vendeva 60-70mila copie arrivò nel 2000, quando io ero direttore, a superare le 400 mila copie al giorno.

Nel mio girovagare incontrai molte altre volte Agnelli prima di andare a lavorare il Fiat come responsabile dei rapporti con l’informazione. Ogni volta che mi incontrava mi chiedeva se mi stavo divertendo a fare quello che facevo. Il lavoro è lavoro, cercavo di dire. Sì, replicava, ma se uno non impara qualcosa di nuovo, non si diverte. Quando ero al Mattino di Napoli lo intervistai su una cruciale partita Napoli-Juve, ed è da quella intervista che lui capì che il calcio non era il mio forte!

Lavorando in Fiat abbiamo avuto modo di parlare a lungo anche perchè il mio ufficio scriveva gli interventi pubblici per lui, per Romiti e per tutto il vertice. Prima di iniziare a scrivere cercavo di capire quale fosse il suo pensiero sui temi più vari, dalla politica all’Europa, alla congiuntura economica. Era appassionato di storia contemporanea e spesso parlavamo del’ultimo libro uscito sulla seconda guerra mondiale e sul destino dell’Italia.

Insieme abbiamo affrontato la vicenda di Tangentopoli. La preparazione di un suo intervento ad un convegno organizzato dalla Confindustria a Venezia fu una via crucis. Mi assunsi la responsabilità di fargli dire che sì anche in Fiat c’erano state delle deviazioni, ma che una cosa era dover cedere per ottenere dei diritti e cosa del tutto diversa era spartirsi il malloppo per fare cose del tutto inutili e truffaldine. Il caldo applauso della platea segnò l’inizio della risalita dell’immagine Fiat presso la pubblica opinione. Due anni dopo l’azienda registrò una spettacolare ripresa delle vendite e dei profitti. Dopo l’annuncio dei risultati semestrali, in un caldissimo luglio torinese, mi venne un collasso e caddi a terra svenuto. Portato d’urgenza in ospedale dopo poche ore ero a casa senza gravi conseguenze. L’avvocato mi telefonò a tarda sera e mi disse: “Cosa è successo? E’ forse rimasto scioccato per i brillanti risultati del nostro bilancio?”

Non si fidava di Berlusconi. Un po’ perchè era sostanzialmente contrario agli imprenditori in politica, e molto perchè Berlusconi gli sembrava più che un imprenditore un grande affabulatore, capace di sostenere con naturalezza una cosa ed il suo contrario. Si arrabbiò moltissimo quando venne negata a Spadolini la presidenza del Senato e lo disse apertamente ad un convegno di imprenditori che però non gradirono affatto ed iniziarono a rumoreggiare.

La verità è che vedeva un’Italia che stava virando verso un populismo plebiscitario che a suo parere non avrebbe lavorato per la modernizzazione del Paese, ma passo dopo passo avrebbe favorito il suo provincialismo ed il suo distacco dalle vitali democrazie occidentali. Per questo si battè senza incertezze per l’ingresso nell’Euro, anche contro il parere di altri imprenditori e dello stesso Romiti, che ritenevano che l’Italia non fosse pronta a rinunciare a curare i propri mali con la periodica svalutazione della lira.

E’ stato cittadino del mondo, ma era profondamente attaccato a questo Paese. Era consapevole delle responsabilità che lui e la sua famiglia avevano verso l’Italia. Gli piacevano i bagni di folla ed era orgoglioso della popolarità di cui godeva. Una volta che in una piazza di una media città del Nord, volevo aiutarlo a districarsi dalla folla che lo circondava acclamandolo, Donna Marella mi fermò dicendomi: ” Lo lasci ancora un po’, a lui piace”. Una volta mi spiegò che gli italiani sentono che lui, Agnelli, era uno di loro: era stato con loro durante la guerra, si era divertito negli anni del boom economico, soffriva insieme a loro allo stadio. Insomma nel bene e nel male aveva le stesse passioni degli italiani e ne momenti cruciali c’era stato ed aveva fatto la sua parte.

Sono trascorsi solo dieci anni dalla sua scomparsa. L’Italia è cambiata in fretta e non sempre in meglio. Agnelli rappresenta un periodo che non tornerà. E oggi abbiamo bisogno, ancor più di prima, di una vera classe dirigente che possa essere di esempio al Paese, che sia consapevole delle responsabilità che il successo negli studi, in politica o negli affari comporta verso il resto della società. Dobbiamo affrontare una nuova ricostruzione dell’Italia quasi come nel dopoguerra. Agnelli non potrà partecipare ma il suo esempio sia di ispirazione a quanti si ritengono classe dirigente e si candidano a gestire la rinascita non solo della nostra economia ma della nostra società.

Leggi anche: la storia di Gianni Agnelli, a cura di Aldo Bernacchi.

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