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Piazza Affari e finanza islamica, un legame difficile

CONVEGNO AIAF – La finanza islamica può rappresentare un canale di finanziamento per le imprese italiane, ma solo il 9% delle aziende quotate a Piazza Affari risponde ai criteri imposti dalla Sharia – Si tratta per lo più di società attive nei settori di punta del made in Italy, fra le quali spiccano Landi Renzo e Tod’s.

Piazza Affari e finanza islamica, un legame difficile

Niente speculazione, niente interessi. La Borsa tradizionale va dimenticata: gli investitori entrano direttamente nel capitale delle aziende su cui scelgono di puntare e ne condividono gli utili come le perdite. Sono precetti rigidi quelli della finanza islamica, ma il credit crunch forse lo è ancora di più. Per questo le aziende italiane potrebbero trovare nelle risorse di chi segue la Sharia un “canale alternativo di finanziamento“. Lo sostiene Paolo Balice, presidente dell’Associazione italiana degli analisti finanziari (Aiaf), che venerdì ha organizzato a Roma un convegno dal titolo “Investimenti esteri in Italia: le opportunità per gli investimenti islamici”.

Secondo Enrico Giustiniani, socio Aiaf, “la finanza conforme alla Sharia è oggi una nicchia, ma il suo peso sta diventando sempre più rilevante”. Certo, le difficoltà non mancano. Banche e fondi islamici devono sottostare a due ordini di controlli: da una parte le leggi dei Paesi in cui decidono di portare il loro denaro, dall’altra la Legge di Dio, che impone severe limitazioni. Non solo è proibito speculare (addio a bond, azioni e derivati), ma anche operare in settori considerati peccaminosi, come armi o alcol. Esistono perfino delle autorità, gli “Sharian Board”, che verificano la rispondenza dei contratti a questi principi. 

Nella scelta dei soggetti in cui investire, tuttavia, è impensabile escludere a priori tutte le società che hanno a che fare con tassi d’interesse. Gli investitori islamici puntano quindi sulle aziende che godono dei rapporti d’indebitamento più equilibrati, a riprova di una minore tendenza speculativa. Le imprese “Sharia compliant” sono perciò particolarmente solide e dimostrano un’elevata capacità di resistenza in tempi di crisi.

D’altra parte, “i criteri imposti dalla legge islamica limitano fortemente la platea delle aziende con cui gli investitori osservanti possono avere rapporti – sottolinea ancora Giustiniani – al punto che la maggior parte delle società italiane viene immediatamente scartata per eccessivo indebitamento”. 

Secondo uno studio Aiaf, delle 278 aziende quotate a Milano nell’ottobre 2012, solo 25 potevano essere considerate “Sharia compliant” (il 9%), mentre altre 189 (il 68%) erano escluse a causa dei troppi debiti. Fra le promosse, i titoli più rappresentati erano quelli delle società a medio-bassa capitalizzazione, attive per lo più nei settori di punta del made in Italy. Due esempi su tutti: Landi Renzo e Tod’s.  

Resta da capire se gli investitori islamici siano davvero interessati alle aziende del nostro Paese. A quanto pare di no, almeno per il momento: “Ad oggi i flussi sono orientati in modo molto più deciso sul fronte domestico, in particolare verso il mercato malese – spiega Luca Filippa, managing director del Ftse Group -. Gli investimenti ‘Sharia compliant’ sul teatro internazionale sono ancora in fase di sviluppo”. 

Sarebbe possibile adottare delle misure per incentivare l’afflusso di capitali islamici, ma su questo terreno le differenze culturali rappresentano un ostacolo. In particolare quando è in gioco il Fisco italiano. Paola Giacchetto, responsabile dell’ufficio tributario dell’Abi, ricorda come “in alcuni Paesi siano state introdotte leggi che consentono la creazione di prodotti finanziari ‘Sharia compliant’. In Italia questo non avviene, perché le obbligazioni islamiche – che non garantiscono il rimborso del capitale alla scadenza – sono classificate come titoli atipici e vengono quindi penalizzate dal Fisco. Il nostro ordinamento non ha mai recepito questo genere di operazioni”.     

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