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Nord-sud: il nuovo dualismo italiano

L’Italia si trova in una spirale di eccesso di debito pubblico contratto per finanziare uno stato assistenziale che non funziona e che non è in grado di ridurre le troppe differenze all’interno del paese. Anche i piccoli incrementi di produttività somigliano più a degli scherzi statistici che a segnali di ripresa. E c’è il rischio che l’Europa ci segua

Adriano Giannola, Riccardo Padovani e Luca Bianchi hanno presentato alcune anticipazioni sul Rapporto Svimez 2011, edito da il Mulino, che verrà proposto al confronto pubblico nella seconda metà di settembre. Il Nord e il Sud, dicono i tre dirigenti della Svimez, sono vincolati a un comune destino, depressivo, nel ciclo triennale della crisi (2007/2010), ma divergono alla fine della recessione, quando, seppure timidamente, si leggono i primi segni di ripresa.

Qui sta il cuore del ragionamento. Ma le analisi offerte dalla Svimez propongono anche singolari indizi di un processo che bisognerà decifrare meglio, quando saremo in presenza di una massa più larga e articolata di dati relativi al 2010 e delle anticipazioni relative al primo semestre del 2011.

Il dualismo italiano, che tutti conosciamo bene, non si deve più leggere tra Nord e Sud, in verticale rispetto alla lunghezza della penisola ma si deve guardare in diagonale: con una protesi che parte da Nord Est e si protende verso Roma tagliando il centro della penisola e una sorta di virgola di ponente, che vede la parte complementare della geografia economica italiana (Piemonte, Liguria, parte della Lombardia, Toscana e Mezzogiorno continentale) come l’insieme che subisce colpi duri dalla recessione e che non riesce a ripartire ad un ritmo adeguato.

Certo, Piemonte, Liguria e Lombardia rimangono regioni ricche: nel 2010, alla fine della recessione, il reddito procapite del Piemonte supera i 27mila euro e quello della Lombardia ne quota oltre 32mila. Campania e Puglia, le ultime della classifica, si fermano poco sopra i 16mila euro. Ma la dimensione della ricchezza procapite è una cosa mentre la capacità di creare ricchezza è ben altro. Nel 2010 Campania, Puglia, Basilicata e Calabria accusano tassi di crescita sotto lo zero, negativi. La Liguria si ferma a 0; il Piemonte cresce poco 1,3% ma la media degli ultimi dieci anni, per il Piemonte è negativa (- 0,2%) come le quattro regioni meridionali appena indicate, con la Basilicata che accusa la peggiore performance media annuale (- 0,7%).

Una Italia divisa in diagonale, dicevamo. Ma non solo questo carattere emerge. Emerge attraverso tre indicatori molto utili, un’Italia che produce sempre meno e accusa colpi sia sul fronte del reddito per abitante, la domanda, che su quello della produzione per addetto: la produttività che dovrebbe sostenere l’offerta e sorreggere la capacità di competere nel resto del mondo.

Gli analisti della Svimez hanno calcolato, ponendo uguale a 100 la media del centro nord, tre indicatori per il Mezzogiorno nei dieci anni che vanno dal 2000 al 2010: il prodotto per abitante, il prodotto per unità di lavoro e le unità di lavoro per abitante. Certo si leggono dati tagliati in verticale, lungo la interpretazione tradizionale tra Nord e Sud. Speriamo di poter leggere presto la medesima interpretazione nella edizione diagonale, Veneto che si protende verso il Lazio e virgola di ponente, che rallenta nella crescita e stenta a riprendere la strada dello sviluppo.

Nel 2000 il sud ha un prodotto per abitante, il reddito che si può spendere, pari al 56% di quello del centro nord, la metà. Ha un prodotto per unità di lavoro, il valore dei servizi o dei beni prodotti da un lavoratore, pari all’82% di quello del centro nord. Ha un numero di unità di lavoro per abitante, pari al 68% del centro nord: questo significa che ogni volta che poco più di tre persone lavorano nel centro nord, nel sud ne lavorano solo due. Se si moltiplica il valore delle unità di lavoro diviso le popolazione per il prodotto per unità di lavoro, si ottiene il prodotto pro capite. Insomma, il prodotto procapite del Sud è più basso di quello del Nord perché nel Sud lavora un parte troppo piccola della popolazione residente. Ed ognuno di quelli che lavora produce di meno di quelli che lavorano nel centro nord.

Ma – mentre le unità di lavoro rispetto alla popolazione, nel sud sono, dal 2000 al 2010, oscillanti tra 68% e 67%, rispetto al centro nord – la bassa produttività del mezzogiorno, rispetto al centro nord, passa dall’82% all’85% nel 2010 rispetto al 2000. Insomma, nel Sud lavora una parte troppo piccola della popolazione ma quelli che lavorano hanno aumentato la produttività personale. Vi chiederete perché. Perché il grosso dei disoccupati prodotti dalla crisi si concentra nel mezzogiorno. Nel sud si concentra il 60% dei posti di lavoro persi nella crisi, 281 mila su oltre cinquecentomila. Perché nel Sud le imprese sono poche e piccole. Dunque sotto i colpi della crisi chiudono o licenziano i propri dipendenti.

Nel centro nord ci sono i meccanismi della cassa integrazione che compensano l’effetto di una perdita secca dei posti di lavoro. Il Sud produce di più perché ha subito un colpo nel numero degli occupati. Ed ha anche subito un colpo nel mancato incremento degli investimenti. Insomma le imprese italiane migliorano la propria produttività perché riducono il capitale investito e il capitale umano, il secondo nel sud ancora di più. Questo aumento di produttività è, insomma, un effetto della desertificazione progressiva del sistema delle imprese. L’Italia sarà, se continua questa tendenza, una economia con un sistema economico più piccolo. Ed invece di contare il numero dei disoccupati, che risulta compatibile se non inferiore agli standard europei, bisognerebbe contare il numero degli occupati, che diventa sempre più piccolo rispetto agli standard degli altri paesi europei e delle economie avanzate.

Si dirà che comunque, nel sud come in Italia, c’è molta economia sommersa. Ma questa è una ulteriore patologia che si accoppia con la troppo bassa produttività ed aumenta la difficoltà di competere. Parché le imprese esplicite, a bassa produttività, non riescono a stare sul mercato internazionale e quelle sommerse erodono i margini di competizione sul mercato interno in maniera sleale.

Che cosa rappresenta oggi l’Italia? Una straordinaria metafora di quello che potrebbe diventare l’Europa se non si sottrae a questa spirale di eccesso patologico di debito pubblico, per finanziare uno stato assistenziale che non funziona, e se non riduce le troppe differenze che stanno al suo interno. Ma soprattutto l’Italia ci mostra come la politica del rigorismo nella finanza pubblica, diffusa in Europa, deflaziona ulteriormente il sistema: è necessaria ma ci serve solo a galleggiare, rimanere in vita. Rimanendo in vita con il rigorismo, tuttavia, lo ha detto Adriano Giannola, si finisce con il restituire ai proprietari dei titoli del debito pubblico gli avanzi di bilancio, che si ottengono riducendo le spese sociali e gli investimenti in infrastrutture.

Essendo i titolari di quei titoli investitori stranieri e, presumibilmente, persone ad alto reddito, che vivono al Nord più che al Sud, questa politica di rigore solo fiscale vedrebbe penalizzato il sud, con ancor meno servizi, e premiati il nord e gli investitori stranieri. Forse si dovrebbe pensare anche ad un politica del cambio e darsi una spiegazione su due punti: come mai l’euro è l’unica moneta forte rispetto al dollaro mentre l’Europa non è un paese esportatore netto? Come mai la Germania, che è un esportatore netto, utilizza il vantaggio della moneta forte mentre la protesi Lazio-Veneto rappresenta un’appendice della economia tedesca in Italia? Come mai la Cina non vuole che la propria moneta si apprezzi come dovrebbe, visti i surplus di bilancia commerciale dell’economia cinese? Come mai un paese incapace di competere per la sua bassa produttività, come è l’Italia, ma anche larga parte dell’Europa, deve sopportare anche i costi di una moneta forte, che gli pregiudicano ulteriormente di andare sui mercati esteri mentre la politica del rigore fiacca il tono della domanda interna?

Non stiamo dicendo che si debba uscire dall’euro: sia molto chiaro. Ma che si debba fare una politica della moneta in Europa e non lasciare nelle mani di una banca centrale, che teme l’inflazione mentre l’Europa non esce dalla recessione, il corso del cambio. Ci vorrebbe uno Stato che faccia insieme politica di bilancio e politica monetaria ma che apra anche la sua azione al coordinamento dei cambi, e degli scambi commerciali e degli investimenti, con altre nazioni sul mercato internazionale. Ci vorrebbe un governo. Ed anche in questo caso, il Sud, l’Italia e l’Europa sono sul medesimo terreno: ci vorrebbe uno Stato e ci vorrebbe un Governo. Cose che non ci sono sia in Italia che in Europa. Mentre nel Mezzogiorno ci sono regioni in affanno e un federalismo che non si capisce come, e se, possa compensare tutti gli squilibri di cui abbiamo appena detto.

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