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Nel dopo Moncler molti hanno puntato il dito contro il private equity. Che respinge le accuse

Marco De Benedetti (Carlyle) esclude di essere interessato a Ti Media e spiega: “Siamo un altro modello di proprietà e sappiamo fare il nostro ruolo di azionisti”. Dallocchio (Bocconi): “Evidentemente c’è del malessere per quanto riguarda le valutazioni fatte dal mercato”

Nel dopo Moncler molti hanno puntato il dito contro il private equity. Che respinge le accuse

Li credevamo fuori gioco. O almeno in panchina. Invece stanno sparigliando le carte in tavola e rovinando la festa a Piazza Affari (mentre Prada va a Hong Kong, qualche nuova matricola rivitalizzerebbe il nostro listino). I private equity hanno le casse piene e tanta voglia (o necessità?) di fare deal. Un bene per le aziende? Probabilmente sì. Un bene per i mercati finanziari? Decisamente no, specialmente dopo episodi come il passo indietro di Moncler a un soffio dalla quotazione. “Quando ci si incontra per parlare di private equity – ha detto Maurizio Dallocchio, presidente della cattedra Nomura di corporate finance dell’Università Bocconi – si ha la sensazione di essere in un mondo avvolto da colpe pesanti. Ovviamente qualche colpa del sistema c’è stata ma sono contrario all’impostazione giornalistica per cui le operazioni di questi giorni sono insensate e sottraggono al mercato opportunità di investimento. Evidentemente c’è un malessere, anche per quanto riguarda le valutazioni fatte dal mercato, che i fondi sfruttano”. Dallocchio parla durante l’incontro in Bocconi su “Il ruolo del private equity al tempo della crisi”, cui hanno partecipato diversi esperti del settore, tra cui Giancarlo Aliberti, amministratore delegato di Apax Partners Italia e Marco Samaja, amministratore delegato di Lazard Italia. Ma seduto a fianco di Dallocchio c’era anche Marco De Benedetti, managing director proprio di Carlyle, il private equity protagonista della cessione di un pacchetto del 30% di Moncler al fondo Eurazeo. “Il successo di un’azienda è fatto anche dal ruolo dell’azionista – ha detto – e il private equity non è altro che un diverso modello di proprietà. E sa fare il suo ruolo di azionista, anche nel periodo di crisi, mentre questo non è successo in altri Paesi. Certo, abbiamo fatto errori anche noi, ma non diversi da altri casi e da forme di proprietà e non è corretto associare la situazione di aziende che hanno avuto difficoltà ai private equity”. Il riferimento esplicito va ai tanti Ligresti che hanno avuto problemi pur essendo azionisti “familiari”. A margine della tavola rotonda De Benedetti ha poi dichiarato improbabile un possibile ritorno nel ruolo di azionista di Avio, l’azienda leader del settore dell’aeronautica che sotto l’effetto Moncler (e prima Rhiag) potrebbe scegliere di interrompere il percorso verso la quotazione e aprire la strada a un nuovo socio. Così come è da escludere un interesse per Ti Media del fondo Carlyle. “Io non mi occupo dal punto di vista operativo delle attività che fanno capo al gruppo Cir, non sono la persona più adatta a rispondere e non parlo di cose di cui non mi occupo”, ha poi aggiunto in riferimento alle intenzioni del resto della famiglia, il fratello Rodolfo e il padre Carlo. Ma come stanno e come si muovono oggi i private equity a tre anni dai fasti del 2007? Per Anna Gervasoni, direttore generale Aifi intervenuta al convegno, il mondo dei private equity non è cambiato molto e continua a essere protagonista. Certo, il taglio medio delle operazioni è più basso, i volumi sono minori, la leva è più contenuta e i multipli sono stabili (a meno che il multiplo di 12 volte l’ebitda di Moncler e le future operazioni non spingano in alto l’asticella). “Ma il private equity – dice Gervasoni – vede il suo ruolo rafforzato nell’M&A, soprattutto nell’ambito delle operazioni di buy out che fanno ancora la parte del leone rispetto alle start up”. E in Italia occupa una posizione di peso, per quanto più piccola rispetto ai numeri della finanza: le società che i private equity hanno in pancia rappresentano un segmento un po’ più grande dello Star (1,3 volte la capitalizzazione), il 5,2% dell’economia delle medie imprese italiane, il 2,4% della forza lavoro della Fiat e il 15% del Pil. E ci sono ancora soldi da investire. Con un’ultima critica da smontare: “Non è vero che i fondi non fanno la loro parte – dice Francesco Perrini, direttore Cresv Università Bocconi – molti hanno cercato di mantenere l’investimento anche provvedendo a mettere nuovo capitale”.

Pubblicato in: News

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