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Nagorno Karabakh, ci vorrebbe il modello Alto Adige

INTERVISTA a MARIO RAFFAELLI, negoziatore e presidente della prima conferenza di pace sul Nagorno-Karabakh -“Senza una tregua è molto difficile creare le condizioni per una reale e duratura stabilità” della regione che realisticamente non si baserà nè sull’indipendenza nè sulll’autonomia ma su una “terza via” sul modello dell’Alto Adige

Nagorno Karabakh, ci vorrebbe il modello Alto Adige

Il Nagorno Karabakh come l’Alto Adige. Secondo Mario Raffaelli, negoziatore e presidente della prima e più importante conferenza di pace (1992-93) su questa regione azera abitata da armeni in cui è tornata la guerra nelle ultime settimane, la “soluzione altoatesina” è l’unica praticabile per spegnere questo conflitto congelato e scongelato a intermittenza.

Nel Psi fino al 1994, poi indipendente, Mario Raffaelli oggi ha scelto Azione, il movimento fondato da Carlo Calenda. È stato più volte sottosegretario negli anni Ottanta e dal 2010 è il presidente dell’Amref Health italia, un’organizzazione non governativa internazionale con sede a Nairobi. Ha seguito nella sua carriera molti e diversi conflitti, sempre in qualità di mediatore per affermare processi di pace, soprattutto in Africa (Mozambico, Somalia, Corno d’Africa) e nel Nagorno Karabakh, appunto.

Va detto che in quel pezzo di Caucaso tutto è cominciato prima ancora della dissoluzione dell’Urss. In piena perestroika, all’inizio del 1988, gli armeni chiedono a Mosca di allontanare gli azeri da 127 villaggi, ma senza aspettare la risposta di Mosca, in una sola notte, distruggono la città di Chodgiali, abitata dagli azeri. La reazione azera è durissima: nel mirino cade la città di Sumgait, abitata da migliaia di armeni che vengono trucidati. Gorbaciov prova a riportare l’ordine, ma ormai anche per lui è suonata la campana. E così, fra un ordine ignorato del Pcus e un altro, arriviamo al 1991, quando a Mosca si svolge lo strano colpo di stato contro Gorbaciov. Gli azeri capiscono che è finita un’era e, prima che la bandiera rossa sia ammainata dal Cremlino, si affrettano a lasciare l’Unione e a proclamarsi Repubblica autonoma.

Anche in Nagorno-Karabakh si vuole approfittare dell’imminente caduta dell’Urss per sanare l’odiosa contraddizione inventata da Stalin, che aveva obbligato armeni a vivere in territorio azero. E quindi viene proclamata anche qui una Repubblica indipendente. Gli azeri provano a rispondere con la legge, abolendo lo statuto autonomo della regione. Ma sono contraddetti dalla Corte costituzionale sovietica, ancora in vita: non è più materia sulla quale l’Azerbaigian può legiferare. Ringalluzziti, gli armeni del Nagorno votano un referendum confermativo al quale seguono elezioni per un nuovo Parlamento. Il 6 gennaio del 1992 viene ufficialmente proclamata la repubblica e il 31 dello stesso mese gli azeri mettono mano alle armi bombardando la regione. Gli armeni ovviamente rispondono e scoppia la guerra di cui stiamo parlando ancora oggi. Da allora la situazione sul campo è la stessa: la Repubblica autoproclamata del Nagorno Karabakh esiste de facto, ma non è riconosciuta nemmeno dall’Armenia. Il conflitto riesploso ora vede combattimenti più pesanti rispetto agli ultimi, che si erano svolti nel 2016. Non è facile uscirne perché per entrambi i contendenti si tratta di una questione di identità, dalla quale nessuno vuole prescindere. Ma poiché quell’area del mondo è cruciale in termini di sicurezza internazionale (è proprio accanto all’Iran), oltre a essere una via di transito fondamentale per l’energia che dal Caspio arriva in Europa (noi italiani siamo coinvolti per il passaggio del Tap, Trans Adriatic Pipeline, sul nostro territorio), conviene trovare una soluzione. E quindi la parola a Mario Raffaelli, conoscitore dell’area e dei problemi che pone.

Sono trascorsi 26 anni dalla fine del primo conflitto fra azeri e armeni e siamo tornati al punto di partenza: se lo aspettava?

«Purtroppo si, perché in questi 26 anni il “gruppo di Minsk” non ha fatto alcun passo avanti. La situazione che si è creata, quindi, è quella comunemente definita come “conflitto congelato”. Ma è una definizione discutibile perché, di tanto in tanto, i conflitti si scongelano e lo scontro armato può riprendere. È accaduto nel 2016 e, nuovamente, nel luglio scorso. Ciò dipende, essenzialmente, dai rapporti di forza cambiati e dalla percezione, da parte dell’Azerbaijan, che questo indefinito prolungamento del “conflitto congelato”, senza il minimo progresso negoziale, porti inevitabilmente al semplice consolidamento dello status quo. Una situazione che, oltre alla disputa territoriale sul Nagorno Karabakh, coinvolge anche l’occupazione di sette distretti azeri adiacenti al Nagorno e occupati a suo tempo dalle truppe armene».

Torniamo a quegli anni, 1992/1993: che cos’era il Gruppo di Minsk?

«Il gruppo di Minsk è stato formato nel 1992 dalla Csce (oggi Osce) per cercare di gestire la crisi del Nagorno. Ne facevano parte nove paesi (Germania, Stati Uniti, Bielorussia, Francia, Italia, Russia, Svezia, Turchia, Repubblica Ceca) e all’Italia, nella mia persona, era stata affidata la Presidenza. L’intenzione era quella di arrivare in tempi rapidi ad una Conferenza di Pace che avrebbe dovuto svolgersi a Baku. Al contrario, a parte le innumerevoli difficoltà procedurali (quale ruolo assegnare nel negoziato ai rappresentanti delle due comunità – armeni e azeri – del Nagorno) gli eventi militari sul campo ci costrinsero a riaprire ogni volta i termini del negoziato. Io condussi numerose missioni nelle capitali dei principali paesi interessati (non solo quelle di Azerbaijan e Armenia, ma anche Mosca, Ankara, Tbilisi, Teheran). Fui il primo rappresentante occidentale a visitare Stepanakert (la capitale del Nagorno, ndr). Tutto questo servì essenzialmente a fornire gli elementi per le varie risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu, che puntavano a negoziare dei cessatele il fuoco parziali. Lo scontro si interruppe nel 1994 sotto la nuova Presidenza svedese, succeduta alla mia nell’abito della rotazione prevista in sede Csce”.

Cosa contenevano le risoluzioni che eravate riusciti a far approvare all’Onu?

«Le tre risoluzioni ONU (822-853-874) si basarono sulle raccomandazioni da me inviate a nome del gruppo di Minsk in tre rapporti alla Presidenza del Consiglio di Sicurezza. In particolare, oltre alle classiche richieste (cessazione delle ostilità, rispetto dei diritti umani, libero accesso per gli aiuti umanitari, invito a non fornire aiuti militari alle parti) un punto essenziale era la richiesta di ritiro delle forze armene che avevano occupato aree al di fuori del Nagorno Karabakh, con la contemporanea creazione di condizioni atte ad assicurare la libera circolazione nell’area. Queste richieste erano contenute in un “Adjusted Timetable” per l’implementazione delle risoluzioni Onu 822 e 853 (“Adjusted” perché oggetto di più versioni modificate in relazione alle diverse posizioni fra le parti), ciò che doveva consentire l’apertura della Conferenza di pace nella quale affrontare i nodi politici (compreso lo status finale del Nagorno Karabakh). Questa Road Map – rivolta ai tre protagonisti principali: Azerbaijan, Armenia e popolazioni del Nagorno – fu formalmente approvata dalla risoluzione 874, ma, purtroppo, rimase lettera morta. Gli armeni non erano intenzionati a fare concessioni territoriali, vista anche la loro superiorità militare, e questo era inaccettabile per gli azeri».

Perché non è cambiato nulla?

«La situazione da allora è cambiata profondamente. L’Azerbaijan ha accresciuto notevolmente il suo potenziale economico e militare. Nel 2016, con un’offensiva militare come quella iniziata in questi giorni, ha riconquistato alcune parti dei distretti limitrofi al Nagorno. Questo nuovo rapporto di forze e la contemporanea elezione in Armenia di un nuovo Presidente (Nikol Paschinian) non appartenente (a differenza dei suoi due predecessori) agli armeni del Nagorno, aveva fatto sperare all’apertura di una nuova fase. Purtroppo, dopo un inizio di dialogo promettente, la situazione è nuovamente precipitata. Le ragioni possono essere molteplici, ma fra queste c’è sicuramente il senso di frustrazione azero per il timore che il tempo stia cominciando a giocare contro, rendendo irreversibile la situazione creatasi di fatto sul terreno. Il che può diventare anche pericoloso in paesi dove i sistemi istituzionali democratici non sono consolidati».

Lei ha proposto una soluzione tipo Alto Adige Sud-Tirolo in Italia: cosa vuol dire?

«Ho ricordato l’esempio dell’Alto Adige-Sudtirolo perché ne avevo parlato all’epoca (non nelle trattative ufficiali) sia con il Presidente armeno Ter Petrosian che con il Presidente azero Aliev (il padre dell’attuale). Devo dire che all’epoca riscontrai un certo interesse da parte di entrambi. Poi, però, cessai il mio incarico, e, tra l’altro, Ter Petrosian venne dimesso in maniera autoritaria dagli armeni del Nagorno (proprio perché era un moderato). L’ipotesi però è riemersa più volte, sollevata in convegni organizzati da istituti di ricerca e da illustri accademici (ad esempio il professor Toniatti). Io stesso, nel dicembre 2018, sono stato invitato a Baku da un centro di studi strategici (molto vicino al presidente Aliev) per tenere una conferenza sulla mia esperienza del 1992-93. In quell’occasione ho riproposto il modello sudtirolese sia nel corso della conferenza sia negli incontri avuti durante la mia permanenza. La perdurante attualità di quel modello nasce, a mio avviso, dall’impossibilità di percorrere le due soluzioni che ancora oggi propongono le due parti. L’indipendenza del Nagorno Karabakh è irrealistica (non a caso la stessa Armenia non l’ha mai riconosciuta) ma, allo stesso tempo, anche la semplice promessa di autonomia nell’ambito statale azero è ovviamente inaccettabile per gli armeni del Nagorno. La terza via dell’esempio sudtirolese consiste in un’autonomia rispettosa dell’integrità territoriale del paese in questione (nel nostro caso l’Azerbaijan) ma dotata di un ancoraggio internazionale. Cioè garantita internazionalmente. Non è il solo esempio che si potrebbe citare, ma è quello che conosco meglio riguardando la mia regione. Ovviamente i modelli non devono necessariamente essere fotocopiati, ciò che conta sono i principi. E la consapevolezza che poi occorrono decenni per implementare le soluzioni (nel caso altoatesino dal “secondo Statuto” dal 1972 al 1992, anno della “quietanza liberatoria” da parte dell’Austria). Ma un conto è trascorrere gli anni in una situazione di conflitto permanente, un altro è vivere in una situazione dove sono possibili i liberi movimenti delle persone, delle merci e, quindi, crescono gli scambi culturali e commerciali. E si apre una dinamica economica positiva per tutte le parti in causa».

Cosa possono fare l’Italia e l’Europa?

«Nulla può succedere senza una forte iniziativa diplomatica internazionale. Lo stesso gruppo di Minsk, oggi rappresentato da una troika (Russia, Francia e Stati Uniti) ha perso molta credibilità. Putin, Trump e Macron hanno chiesto una tregua immediata. Speriamo siano ascoltati. Ma senza una tregua che possa poi mettere in moto quei principi che sono contenuti nelle tre risoluzioni Onu ricordate, penso sia molto difficile che si possano creare le condizioni per una reale e duratura stabilità».

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