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MiFID 2, quando la trasparenza sui costi fa paura

DAL BLOG DI ADVISEONLY – Nel 2019, per la prima volta, i consulenti finanziari non indipendenti dovranno mostrare ai clienti i costi esattamente come sono. Quali saranno le reazioni?

MiFID 2, quando la trasparenza sui costi fa paura

Il 3 gennaio 2018 è entrata in vigore in 31 Stati dell’area economica europea (i 28 membri dell’UE più Islanda, Liechtenstein e Norvegia), MiFID II, aggiornamento della Markets in Financial Instruments Directive del 2004.

MiFID II è stata approvata dal Parlamento UE nel 2014 e recepita dagli Stati nazionali nel 2017 con l’obiettivo di rafforzare la tutela dei risparmiatori attraverso una migliore definizione del profilo del cliente, una maggiore chiarezza dei prospetti che riportano le caratteristiche dei prodotti e la completa trasparenza dei costi del servizio di consulenza e dell’investimento.

Come abbiamo già detto l’adozione di MiFID II rappresenta una rivoluzione per la consulenza finanziaria. Come verrà accolta dai risparmiatori? Come evolverà il rapporto tra i consulenti e i clienti?

Nell’ottica della totale trasparenza, la normativa stabilisce che tutti i costi del servizio di consulenza e dell’investimento debbano essere resi espliciti, sia in valore assoluto (quindi in euro) sia in valore percentuale. A questo scopo, al cliente va trasmessa un’informativa ex antee una ex post.

Nell’informativa ex ante, il consulente finanziario deve specificare anche se il servizio di consulenza fornito è su base indipendente, e quindi pagato a parcella, oppure su base non indipendente, dunque retribuito tramite gli inducements, ossia le commissioni che la fabbrica-prodotto (società di gestione del risparmio o compagnia assicurativa) retrocede all’intermediario (banca o società di intermediazione mobiliare) su mandato del quale il consulente non indipendente svolge la sua attività.

Attualmente, sui costi della consulenza la percezione diffusa non è proprio aderente alla realtà: i consulenti finanziari si rendono sì conto del fatto che non tutti i clienti finali hanno capito bene come funziona il meccanismo, ma sopravvalutano il grado di disinvoltura con cui padroneggiano la materia.

Almeno, questo è quanto emerge dall’indagine “Impatto MiFID II sull’industria delle reti”presentata da McKinsey&Company nel corso di ConsulenTia 2018, l’evento organizzato a febbraio a Roma dall’Associazione Nazionale Consulenti Finanziari (Anasf).

Fatto 100 il prezzo (pricing) medio attuale delle reti, dall’indagine viene fuori che i clienti affluent lo percepiscono il 25% più basso, ritenendo che sia pari a 75. Invece, i consulenti finanziari credono che la sottovalutazione dei clienti si limiti al -16% (84). Gli asset manager ne hanno una visione più realistica, che corrisponde al -22% (78). In pratica, c’è una cifra compresa tra l’1 e l’1,5 miliardi di euro di ricavi del sistema reti che oggi non è percepita dai clienti finali.

Se la consulenza è “non indipendente”, allora l’informativa ex ante dovrà dettagliare gli inducements, che secondo MiFID II saranno ammessi e accettati solo in presenza di un adeguato valore aggiunto garantito dal servizio (assolutamente vietati i meccanismi di remunerazione che potrebbero spingere i consulenti a raccomandare alcuni prodotti piuttosto che altri più in linea con le esigenze dei clienti).

Non che prima i costi non venissero comunicati, ma non era chiaro quanto costasse cosa. E, soprattutto, quanto spettasse al produttore che aveva creato lo strumento finanziario e quanto al distributore che lo aveva collocato. Una dimostrazione ce la offre l’indagine presentata nell’ottobre 2017 da GFK Eurisko per conto della Consob.

In pratica, almeno fino all’entrata in vigore di MiFID II i clienti non sapevano che il 30% andasse alla fabbrica-prodotto e che il 70% fosse retrocesso all’intermediario che colloca il prodotto tramite il consulente finanziario non indipendente.

Ai clienti, quindi, tutto questo va spiegato. E le varie voci dei costi del servizio (esempio: commissioni di sottoscrizione, costi di transazione e custodia, e via dicendo) e dei costi del prodotto (gestione, intermediazione e uscita, commissioni di performance, spese fiscali, eccetera) vanno comunicate in modo chiaro, esplicito e separato.

MiFID II, come accennavamo qualche rigo fa, distingue però due fasi nella trasmissione di questo tipo di informazioni ai clienti: ex ante, cioè al momento della sottoscrizione dell’investimento, con l’obbligo di indicare, sia in valore percentuale sia in euro, almeno i costi di ingresso, i costi ricorrenti e i costi di uscita, oltre a quanto il distributore recepisce dalla fabbrica-prodotto; ed ex post, da inviare annualmente ai clienti con il dettaglio dei costi effettivi sostenuti nel corso dell’anno.

E qui viene la parte interessante. Perché il primo invio annuale con il dettaglio dei costi realmente sostenuti è previsto per il 2019 e i consulenti finanziari non indipendenti avvertono al riguardo qualche preoccupazione, come segnala l’indagine di McKinsey.

Lo studio evidenzia come le reti abbiano già iniziato a lavorare per prepararsi all’entrata in vigore di MiFID II, sia in sede sia in rete. Tuttavia, più del 50% dei consulenti finanziari non si sente “indirizzato” dal management per affrontare le sfide poste dall’introduzione della normativa.

Gli autori dell’indagine hanno quindi posto la seguente domanda ai consulenti interpellati: “Senza modifiche sostanziali del pricing, quanti dei suoi clienti attuali ridurranno significativamente le masse affidatele?”. Secondo i professionisti circa 12 miliardi di euro dei clienti delle reti potrebbero cambiare consulente di riferimento dopo l’introduzione di MiFID II.

Un rimedio c’è, secondo McKinsey. Se le reti riuscissero a dimostrare al cliente la qualità del servizio offerto, la crescita delle masse affidate alla consulenza dei professionisti continuerebbe a crescere a ritmi elevati, più che compensando una possibile riduzione del prezzo medio.

Nella simulazione di McKinsey, puntare sul rafforzamento del brand “educando” il cliente sulla qualità del servizio farebbe crescere la quota di mercato delle reti a regime del 13%, al 41%, mentre limitandosi a rafforzare offerta e modelli di servizio sugli investimenti la stessa quota salirebbe solo dell’8%, al 36%.

Il suggerimento è chiaro: qualità, qualità, qualità.

Fonte: AdviseOnly

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