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Messori, allarme Università: “Troppi ragazzi non sanno scrivere in italiano”

INTERVISTA DEL WEEK END a MARCELLO MESSORI – L’economista e docente della Luiss è uno dei 600 accademici firmatari della lettera di denuncia delle drammatiche carenze linguistiche degli studenti universitari che spesso non sanno scrivere e parlare correttamente l’italiano – “Crisi della scuola e disgregazione sociale: gli errori di grammatica e ortografia nascono lì”.

Messori, allarme Università: “Troppi ragazzi non sanno scrivere in italiano”

Quanti sono realmente gli studenti universitari in grado di scrivere e parlare correttamente la lingua italiana? Pochi, troppo pochi. Non è una denuncia tra le tante e non è un appello di routine quello lanciato da 600 accademici che hanno inviato una lettera aperta al Governo e al Parlamento per sollecitarli a rimediare rapidamente alle insostenibili carenze linguistiche degli studenti. Altro che generazione  Erasmus, perfino le tesi di laurea sono piene di errori di grammatica e di ortografia. E l’appello dei 600 sta scuotendo l’opinione pubblica. Tra i firmatari c’è anche un noto economista, Marcello Messori, ordinario a Scienze Politiche e direttore della Luiss School of European Political Economy, al quale FIRSTonline ha chiesto di spiegare le cause della mediocre conoscenza della lingua italiana perfino all’Università. Ecco la sua intervista.

Professor Messori, Lei è l’unico economista tra i 600 accademici che hanno firmato la denuncia-appello sulla diffusa incapacità degli studenti universitari di oggi di scrivere e parlare correttamente in italiano: perché l’ha fatto? Che c’entra un economista con le carenze linguistiche dei ragazzi?

“C’entra, c’entra eccome. Prima di tutto perché, pur essendo un economista, sono un cittadino italiano ed europeo; e, in quanto tale, so che i ragazzi devono avere forti radici nel loro Paese e nella loro cultura di origine per acquisire piena consapevolezza della loro appartenenza europea e per diventare cittadini del mondo. La conoscenza della lingua-madre è un veicolo fondamentale, anche se non l’unico, per essere membro di una comunità interagendo con gli altri membri e condividendo un insieme minimo di valori di base. Inoltre, agli occhi di un economista, la conoscenza della lingua-madre (nel nostro caso, quella italiana) è fondamentale per affinare la logica e il ragionamento, ossia quelle capacità che permettono di misurarsi anche con testi complessi e tecnici come sono spesso quelli di economia”.

Come diceva Sciascia, “L’italiano non è solo l’italiano, ma è ragionare”.

“E’ proprio così. Ecco perché dobbiamo essere preoccupati dello scadimento delle competenze linguistiche dei nostri studenti. E’ inaccettabile che proprio la “generazione Erasmus”, capace di ‘cavarsela’ in due o tre lingue straniere, non sappia scrivere ed esprimersi adeguatamente in italiano. Ribadisco: non si diventa un consapevole cittadino italiano ed europeo, se non si padroneggia la lingua del proprio Paese o del Paese in cui si vive”.

E’ capitato anche a Lei di trovare strafalcioni perfino nelle tesi di laurea?

“Nel mio ormai lungo periodo di docenza universitaria mi sono imbattuto in errori di vario genere, sia nelle prove scritte di esame sia nelle tesi di laurea. Nelle tesi gli errori di ortografia stanno scemando anche grazie ai “correttori automatici”. Negli ultimi venti anni ho invece riscontrato preoccupanti incrementi sia nell’uso improprio dei termini utilizzati, sia nella costruzione erronea delle frasi, sia nella sequenza dei ragionamenti. Specie le ultime due tipologie di errore rivelano un’insufficiente conoscenza dell’analisi logica”.

Ma da dove proviene questo scadimento della capacità dei ragazzi di oggi, perfino nell’ultima fase del loro percorso di formazione, di esprimersi correttamente in italiano e di scrivere e di parlare nella loro lingua senza errori?

“Credo che derivi in parte dalla crisi della scuola, che non è più in grado di superare o attenuare gli scalini indotti dalla diversa provenienza famigliare e che ha difficoltà a valorizzare la crescente presenza multiculturale degli studenti, e in parte dalla disgregazione sociale”.

E cioè?

“L’inefficace organizzazione scolastica ha, certamente, pesanti responsabilità riguardo allo scadimento delle competenze linguistiche dei ragazzi. La scuola di base non ha saputo adeguare l’insegnamento dei fondamenti della lingua italiana, dall’ortografia alla grammatica, all’evoluzione delle forme e delle capacità di apprendimento di giovani che hanno vissuto e stanno vivendo in una società in forte cambiamento. Per svolgere un compito così complesso, la scuola di base avrebbe dovuto essere oggetto di efficaci strategie di programmazione e di investimento da parte dei responsabili delle politiche economiche e sociali e da parte dei rappresentanti del corpo docente. Viceversa, da tempo, si sono mortificate le professionalità degli insegnanti e si è reso marginale il loro ruolo sociale. A quest’ultimo riguardo, basti considerare quanto si sia degradato il rapporto fra insegnanti e genitori degli studenti con il risultato che troppi (anche se, per fortuna, non tutti gli) insegnanti di lettere e delle altre materie si sono adattati a un lavoro di mera routine. Si tratta di aspetti cruciali del problema; ma, a mio avviso, sono solo una parte del problema. Pur correndo il rischio di scadere in argomentazioni generiche, vorrei sostenere che i nostri ragazzi non sanno l’italiano anche per ragioni più generali”.

In che senso?

“Come ho accennato prima, vi sono almeno tre cause, oltre a quelle interne all’organizzazione della scuola rispetto all’insegnamento dell’italiano, che stanno alla base delle drammatiche insufficienze linguistiche degli studenti. La prima è la perdita della conoscenza delle proprie radici; il che rende poco rilevante comunicare con la propria comunità e spinge alla chiusura in piccoli gruppi autoreferenziali. La seconda causa risiede in un conseguente e crescente disincentivo a organizzare i propri pensieri e i propri ragionamenti secondo un rigoroso filo logico. Si diceva una volta che “chi parla male”, tende a “pensare male”; eppure oggi non sembra esservi né aiuto né perdita di reputazione rispetto a chi “parla male”.”

E la terza causa?

“E’ la più complessa e, in qualche modo, comprende ed estende le altre due. Questa terza causa affonda le radici nella disgregazione della nostra società. Soprattutto nell’epoca della mescolanza tra popoli e culture diverse, parlare e scrivere correttamente in italiano potrebbero diventare strumenti essenziali di integrazione, di coesione sociale e di democrazia. D’altro canto però, l’apprendimento dell’italiano richiede una base minima di coesione sociale. Si crea così un circolo vizioso: senza coesione, non si diffonde l’uso corretto della lingua; senza un’adeguata conoscenza della lingua, è difficile riprodurre e rafforzare la coesione sociale specie in una fase di rapido cambiamento come l’attuale. Il risultato rischia di essere una progressiva disgregazione sociale, che alimenta diffidenze reciproche e impedisce la condivisione di un insieme minimo di valori e di ideali. In questa chiave, le incompetenze linguistiche dei giovani diventano causa ed espressione del problema. Come ha spesso affermato Tullio De Mauro, negli anni del boom economico la televisione è stata un formidabile strumento di diffusione della conoscenza linguistica tra gli italiani e ha, così, contribuito alla coesione sociale. Da tempo la televisione non svolge più tale ruolo. Qual è ora lo strumento di aggregazione?”

Non crede che anche il diffondersi del lassismo nella scuola e nelle famiglie abbia contribuito ad offuscare il valore della disciplina nello studio e l’importanza del merito come elementi fondanti di una scuola che, al contrario di oggi, era anche una sorta di ascensore sociale?

“Certamente sì. Pur vivendo nella “società della conoscenza”, l’apprendimento in generale non è più percepito come un valore positivo. In mancanza di una base adeguata di coesione sociale, lo studio e l’istruzione cessano di essere sia uno strumento di comprensione del mondo sia il veicolo di una promozione individuale basata sull’uguaglianza delle opportunità. L’affermazione sociale diventa, così, l’esito di un’eredità famigliare (per tornare al problema della lingua: “parlo bene l’italiano perché i miei genitori sono laureati o perché vivo in una casa piena di libri”) o, ancora e molto peggio, il frutto di “familismo amorale”.”

Anche la diffusione di uno stile di vita basato sulla fretta e sull’approssimazione e indotto da un uso distorto di Internet e di Twitter hanno contribuito a far sì che i ragazzi parlino e a scrivano scorrettamente la nostra lingua?

“Rovescerei il discorso. L’uso distorto di Internet e di Twitter non sono la causa ma l’effetto di una scarsa conoscenza della lingua. La brevità non porta necessariamente all’approssimazione; anzi, se fosse combinata con una robusta capacità di analisi logica, la sintesi, a cui ci spingono le nuove tecnologie, potrebbe sfociare nel massimo della raffinatezza. Come diceva il filosofo Biagio Pascal: “non ho avuto il tempo di essere breve”. Abbiamo strumenti tecnologici fantastici che non siamo in grado di utilizzare appropriatamente a causa della perdita di coesione culturale e sociale e a causa dello scadimento della scuola. Se vuole produrre competenze linguistiche e conoscenza per i propri studenti, la scuola deve usare massicciamente le nuove tecnologie. Insomma, per ricucire un tessuto sociale sempre più lacerato, la scuola deve saper cambiare rompendo vecchi schemi di trasmissione del sapere; essa deve, però, continuare a trasmettere regole di base e sapere. E’ un lavoro di lunga lena. Se l’Italia vuole arrestare il suo drammatico declino economico e sociale, la ri-valorizzazione della scuola è però un buon punto da cui partire. Si tratta di aprire gli occhi e di incominciare”.

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