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Le imprese italiane sanno che si stanno suicidando? Il taglio di uno o due punti in più del cuneo fiscale non frenerà la fuga di giovani

Se tanti giovani talenti emigrano un motivo c’è: occorre una strategia complessiva, che abbracci la stessa cultura del lavoro e l’organizzazione aziendale

Le imprese italiane sanno che si stanno suicidando? Il taglio di uno o due punti in più del cuneo fiscale non frenerà la fuga di giovani

Quando corrono compatti verso un burrone, i lemming sanno che si stanno suicidando? No, naturalmente. Sia perché il loro comportamento di massa è caotico sia perché non hanno alcun istinto suicida, nemmeno per preservare la specie di fronte alla penuria di cibo. Semplicemente, negli spostamenti in gruppo alcuni di loro rimangono schiacciati e altri annegano. Ma la loro velocità di riproduzione è tale che non c’è alcun pericolo che si estinguano. La curiosità torna utile per introdurre un ragionamento più interessante, trasferito in tutt’altro contesto: sanno le imprese italiane che si stanno suicidando? Prima di rispondere è utile spiegare il senso della questione.

Ormai da molti anni l’andamento della crescita dei salari italiani reali è di gran lunga inferiore a quella che si riscontra negli altri paesi avanzati europei. Si risponderà che anche l’economia e la produttività sono cresciute meno e la dinamica delle buste paga ne è un riflesso. I grafici che accompagnano l’articolo di Ferruccio de Bortoli sul Corriere economia del 28 novembre, redatti da REF Ricerche, non hanno bisogno di molti commenti. Forse, solo di colori che rendano più facile all’occhio seguire le linee.

Negli ultimi vent’anni si è aperto un grande gap salariale

Eppure, a sentire il dibattito che lo stesso de Bortoli riporta, sul cuneo fiscale e sull’erosione del potere d’acquisto delle buste paga italiane viene il dubbio racchiuso nella domanda, che ripetiamo: sanno le imprese italiane che si stanno suicidando?

Qualcuno potrebbe argomentare che in realtà, con i contratti negoziati, inferiori a quelli tedeschi e francesi, la competitività è destinata a salire e questo porterà a una maggior salute dei conti delle imprese e una loro maggiore espansione. Ma è esattamente qui che sorge il dubbio: perché con il gap salariale che si è aperto negli ultimi vent’anni, con le offerte che vengono dai datori di lavoro negli altri Paesi, l’uscita di giovani e meno giovani talenti dal nostro Paese è fortemente incentivata.

In realtà italiani “in fuga” sono molto di più

Un’uscita che è già simile a un’emorragia, come ha documentato con numeri e spiegazioni la Fondazione Nord Est. Peraltro, usando i dati ISTAT che contengono una distorsione sistematica: chi va via non ha alcun obbligo o incentivo a cancellarsi dall’anagrafe, mentre nei Paesi di accoglienza ci sono molti buoni motivi per registrarsi (pagare le imposte, avere servizi pubblici, ottenere cure mediche). Cosicché il “vero” numero di italiani in fuga dal Bel (?) Paese è tra quattro e cinque volte più elevato. Nel grafico qui sotto “correggiamo” i dati ISTAT con una semplice proporzione, giusto per fornire un’idea più vicina alla realtà.

Senza giovani come fa l’Italia a realizzare la rivoluzione digitale?

Posto che le nuove generazioni sono native digitali e hanno una coscienza ambientale notevolmente più evoluta delle generazioni precedenti, per rispondere alla domanda, possiamo dire che molti imprenditori hanno il sospetto che qualcosa non torni. Altri ne hanno la totale certezza, specie lungo la via Emilia da Bologna in su. Nell’insieme, però, ancora ragionano come trent’anni o cinquant’anni fa, quando si chiedeva (e otteneva) la fiscalizzazione degli oneri sociali per erogare aumenti retributivi. Una pratica stigmatizzata da Mario Monti, allora “solo” professore di Politica monetaria alla Bocconi, ed editorialista del Corriere della Sera. Una pratica che cessò quando la Banca d’Italia smise di comperare i titoli di Stato italiani. E iniziò la ristrutturazione dei primi anni Ottanta. Dobbiamo aspettare che la Bce smetta di comperare i Btp perché si inizi a pensare in modo diverso e coerente con il fabbisogno di sviluppo dell’Italia?

Una strategia complessiva per trattenere e far arrivare giovani talenti

Naturalmente, l’uscita di giovani, non compensata da altrettanti arrivi da sistemi economicamente avanzati, non riguarda solo le imprese, ma tutto il Paese, e i suoi rappresentanti a qualunque livello di governo. E non è solo una questione salariale. Coinvolge, tra gli altri elementi, la politica migratoria. Per esempio, un recente studio della Brookings Institution suggerisce che la carenza globale di giovani talenti potrebbe essere lenita dalle giovani generazioni di africani. In qualche regione del Nord-est lo si è compreso e ci si sta attrezzando per capire che fare.

Di certo, a livello nazionale non ha molto senso protestare per avere uno o due punti di cuneo fiscale in più, da distribuire anche ai datori di lavoro, che già godono del più basso costo per unità di competenza al mondo (eccettuato forse qualche angolo della Cina). Occorre una strategia complessiva, che abbracci la stessa cultura del lavoro e l’organizzazione aziendale.

Intanto, la Germania sta per varare un piano per attrarre 400mila lavoratori con alte competenze. Ecco, questo dovrebbe essere il tema dei prossimi Consigli generali di Confindustria. Altrimenti, non ci resterebbe che rassegnarci a constatare che le imprese italiane non sanno che si stanno suicidando. Proprio come i lemming.

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