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La riforma delle Authority in discussione in Parlamento va corretta: su sedi e incompatibilità

Insieme ad alcune norme di utile razionalizzazione il decreto in discussione in Parlamento sulla riforma delle Authority presenta aspetti controproducenti che vanno cambiati subito – Discutibile l’unificazione a Roma delle sedi nei “Palazzi delle Autorità” – Ma anche le incompatibilità vanno riviste per non ostacolare la mobilità dei dirigenti.

La riforma delle Authority in discussione in Parlamento va corretta: su sedi e incompatibilità

Tra le innovazioni che il governo sta introducendo nella attività degli organismi pubblici, ci sono anche norme che riguardano le Autorità di regolazione, della concorrenza e della Consob, in un più ampio quadro di razionalizzazione dell’attività delle Autorità indipendenti. Il Decreto Legge 90 del 24 giugno scorso, attualmente in conversione, ha soppresso la Autorità dei Contratti Pubblici, facendola confluire sotto il Garante per l’Anticorruzione. Inoltre ha introdotto con l’art. 22 del Decreto, norme che dovrebbero, una volta convertite in legge, condurre a una razionalizzazione del sistema.

In realtà l’art. 22 non sembra riguardare questioni generali, quanto alcune previsioni volte a limitare i costi e a contenere alcune storture. Tutto bene? No, perché alcune delle previsioni rischiano di incidere sulla funzionalità e l’efficacia di almeno alcuni di questi organismi, e proprio tra quelle che più sembrano aver meritato.

Infatti, mentre l’esperienza delle Autorità presenta certamente ombre, in particolare per quel che riguarda le finalità assegnate, la stessa necessità degli organismi e i criteri con cui a volte sono stati designati i loro vertici, tuttavia alcuni di questi organismi hanno carattere di assoluta eccellenza nel campo delle amministrazioni e hanno dimostrato grande professionalità e indipendenza dalla politica (sia pure soggette a cicli legati all’avvicendarsi dei vertici). Inoltre alcune sono divenute parte di un’architettura europea di controllo (antitrust) e di regolazione dei mercati che, al di là delle norme nazionali, presuppone esplicitamente o implicitamente la loro totale indipendenza dal governo. Tanto che recentemente il Parlamento italiano ha dovuto modificare una legge che limitava l’autonomia della Autorità delle Comunicazioni, a seguito del rischio di un procedimento di infrazione. E’ bene allora che gli interventi non minino queste caratteristiche di eccellenza e indipendenza. Non appare del tutto chiaro che questo sia il caso.

Cominciamo dai punti positivi contenuti nell’art. 22 Si limita la possibilità per i componenti delle Autorità di passare da un in incarico all’altro, imponendo una pausa di due anni. Bene, anche se non è chiaro se l’intervallo di due anni sia effettivamente sufficiente a limitare il fenomeno dei “professionisti” delle Autorità..

Si impone una riduzione del 20 per cento nel trattamento economico accessorio dei dipendenti e del 50 per cento delle spese per incarichi di consulenza, studio e ricerca. Nel clima generale di riduzione della spesa pubblica è comprensibile. Anche se la Magistratura e la Banca d’Italia probabilmente considererebbero un attentato alla loro indipendenza un diktat che sostanzialmente non considera la finalità e i carchi di lavoro a cui corrispondono quelle spese accessorie (sostanzialmente, le missioni e gli straordinari) e di consulenza (ad esempio evoluzione dei sistemi informatici).

Si richiede alle amministrazioni indipendenti di assoggettarsi alla disciplina degli acquisti gestita dalla Consip; di mettere in comune con almeno un’altra Autorità i servizi generali, dall’amministrazione al personale ai servizi informatici, in modo da ottenere risparmi significativi di spesa; di gestire unitariamente i concorsi dal punto di vista amministrativo: richieste non irragionevoli, purché si individuino modalità per soddisfare le esigenze specifiche, in particolare per quel che riguarda la selezione delle competenze necessarie per organismi con finalità così differenziate.  

Però accanto a queste tutto sommato modeste proposte di razionalizzazione ve ne sono altre la cui portata può essere assai dannosa. In primo luogo, la previsione dei “Palazzi delle Autorità”, che si otterrebbero raggruppando le Autorità in due gruppi, che dovrebbero poi trovare sistemazione in edifici contigui individuati dalla Agenzia del Demanio. In sostanza due blocchi di un migliaio di persone ciascuno, da collocare da qualche parte a Roma. Se l’obiettivo è di risparmiare sugli affitti di quelle Autorità che non hanno una sede propria, il ricorso a edifici demaniali è certamente una buona idea, che forse non avrebbe avuto bisogno di una legge per essere attuata, ma solo di un decreto del direttore dell’Agenzia. Ma perché l’accorpamento di quelle che una sede già ce l’hanno, con immaginabili problemi di ricollocazione? Il problema si pone poi in maniera cruciale per le Autorità che non hanno sede a Roma, in particolare quella dell’Energia, che a differenza della Autorità delle Comunicazioni non ha una importante sede operativa romana, e a differenza di quella dei Trasporti, di recente istituzione, è a Milano da diciassette anni. Qui si tratta di trasferire non solo scrivanie e apparati, ma persone che obiettivamente hanno reso quest’Autorità una delle più efficienti nel panorama europeo: con il rischio di disperdere un patrimonio di competenze senza particolari benefici economici. La questione ha anche aspetti più sistemici: non è necessariamente desiderabile che le Autorità indipendenti abbiano sede là dove ha sede il decisore politico. Tanto che in Germania, ad esempio, l’Autorità della Concorrenza e quelle di regolazione in una città diversa dalla capitale Berlino. Costringere un’Autorità cambiare sede con effetto sulla sua efficienza sembra francamente una poco giustificabile intromissione nella sua attività..

Il secondo punto problematico è rappresentato dalla estensione ai dirigenti delle Autorità di regolazione e della Consob delle previsioni di incompatibilità già previste per i componenti del collegio: non potranno intrattenere, direttamente o indirettamente, rapporti di consulenza o di impiego con soggetti regolati per un periodo di quattro anni. In apparenza, sembra il trionfo della trasparenza e della indipendenza Tuttavia, un’ulteriore riflessione suggerisce che l’esperienza relativa ai componenti non è stata positiva, dando luogo a una limitazione delle figure potenzialmente idonee al ruolo, ristrette a burocrati, magistrati e professori, e incentivando la “rotazione” negli incarichi. Per quel che riguarda i dirigenti, le barriere all’uscita rischiano di dar luogo a barriere all’entrata: la previsione di non poter svolgere altre attività nel settore in cui si è investito tanto del proprio capitale umano finirà per scoraggiare i più brillanti funzionari delle Autorità dal divenire dirigenti, incentivandoli invece a cercare lavoro altrove. Così, si rischia di creare un nuovo genere di “servaggio della gleba”, prodromico a un impoverimento e burocratizzazione delle istituzioni. Anche perché naturalmente la previsione è destinata a ridurre la mobilità in uscita dei dirigenti. Né se ne vedono chiaramente le ragioni: la circolazione di talenti che si è finora verificata tra Autorità e mondo esterno ha consentito la diffusione di una cultura della concorrenza e della regolazione e facilitato il dialogo tra mondo dell’economia e istituzioni. Certo, il discorso è più generale, e riguarda l’atteggiamento prevalente nel nostro paese riguardo il rapporto tra amministrazione e mondo esterno. Nel mondo anglosassone e nelle istituzioni europee il trasferimento delle professionalità dal settore pubblico a quello privato, e viceversa, è considerato benefico per arricchire di competenze il settore pubblico e per diffondere una cultura e etica pubblica in quello privato: nella convinzione che un’efficace attività di controllo interno possa ridurre gli eventuali rischi di deviazione nei comportamenti.

Nel nostro paese prevale una visione molto sospettosa dei rapporti tra privato e pubblico, che ha avuto come conseguenza la separatezza, e spesso il distacco dell’amministrazione dalle realtà dell’economia e della società. La previsione nel Decreto aggrava ulteriormente la situazione, proprio rispetto a istituzioni che hanno con successo rappresentato un esempio che bisognerebbe invece seguire, se si vuole effettivamente “cambiare verso” nei rapporti tra amministrazione e mondo dell’economia..

In sostanza, le misure del decreto sembrano innocue o al più fastidiose: e invece non è piccolo il rischio che alcune di esse finiscano per incidere su alcuni dei caratteri più positivi dell’attività delle Autorità: sarebbe bene che l’iter di conversione portasse a una correzione.

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