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La crisi greca ricorda la Prima guerra mondiale: tutti consci del pericolo ma incapaci di evitarlo

La crisi greca riporta alla memoria la drammatica vigilia della Prima guerra mondiale: tutti erano consapevoli del disastro incombente ma le classi dirigenti si rivelarono incapaci di evitarlo – Speriamo che stavolta finisca diversamente e che i governanti non siano “sonnambuli” come titola un bellissimo libro dello storico Christopher Clark

Ci sentiamo di consigliare senza riserve la lettura di un libro. Non è un libro divertente (parla di una grande tragedia), né facile (è un saggio storico), né veloce da leggere (consta di 700 pagine e per ora si trova solo nella versione originale inglese), ma un’ interessante e innovativa ricostruzione storiografica di un evento determinante per noi europei: la prima guerra mondiale, a cent’anni dalla sua deflagrazione. Si intitola metaforicamente “The sleepwalkers”, I sonnambuli e, esplicativamente, “How Europe went to war in 1914” di Christopher Clark, professore di storia a Cambridge. 

L’originalità storiografica sta nel fatto che Clark non va, come più comunemente avviene, alla ricerca delle cause del conflitto, approccio che porta inevitabilmente alla individuazione di un colpevole. Egli fonda invece l’analisi sui molteplici eventi, maggiori e minori, che si susseguirono, intrecciarono e incrociarono, complicando oltre ogni limite il quadro di fondo, sempre più difficile da gestire e sempre più caratterizzato dalla progressiva inconsapevolezza dei governi verso la tragica soluzione finale. 

Insomma, complessità dei fatti e inadeguatezza delle classi dominanti e quindi chiamata di corresponsabilità di tutti gli attori. Infatti, sostiene Clark, la crisi che portò alla guerra nel 1914 fu il frutto di una cultura politica condivisa da tutti i protagonisti, ragione per la quale l’evento conclusivo non può essere assimilato ad un romanzo di Agatha Christie, dove si mira a smascherare l’assassino, magari con la pistola ancora fumante, perché, se di pistole si deve parlare, nel caso di specie ve ne fu una nelle mani di ciascuno degli attori, soprattutto dei più grandi. 

La guerra fu dunque una tragedia, non un crimine da attribuire alla malevola volontà di uno o più stati. E quale fu questa cultura politica? Emerge dai tanti episodi succedutisi a partire dagli ultimi decenni del secolo precedente fino alla fatidica estate del 1914, tra cambiamenti di alleanze, riposizionamenti strategici, rischiose azioni belliche dagli esiti non calcolati, ambiguità, simulazioni e dissimulazioni di una diplomazia in perenne fibrillazione, antagonismi interni agli schieramenti politici e accordi trasversali anche tra paesi schierati su fronti diversi, lotta per il primato tra politica e classi militari, fino ai facili e interessati ottimismi di una guerra breve. 

Le politiche aggressive della Russia verso gli Stretti e l’interessata protezione della piccola Serbia, l’avventura libica degli italiani che offrì il destro ai nazionalismi slavi per attaccare su altri fronti l’Impero Ottomano in disfacimento, l’alleanza con finalità aggressive tra Francia e Russia sono solo alcuni degli elementi in gioco. Insomma, per Clark, non furono solo le paranoie imperiali della Germania e le mire espansive e vendicative dell’Austria/Ungheria, dopo l’attentato di Sarajevo, a scatenare il conflitto. 

È paradossale invece l’incomprensione di quanto alta fosse la posta in gioco, nonostante alcune riflessioni profetiche sullo scenario che si stava aprendo. E significative furono anche le manifestazioni di ottusità della stampa. Ecco perché i protagonisti andarono in guerra come sonnambuli, guardando, ma non vedendo, inseguendo le proprie assolute ragioni, eppure ciechi nei riguardi dell’orrore che stavano portando nel mondo. 

A distanza di un secolo la domanda di come possa essere accaduto è ancora attuale, ma ciò che ci deve interessare, si chiede ancora Clark, è se quella intricata complessità faccia tuttora parte della presente scena politica europea, nella quale gli attori della crisi dell’Eurozona, pur consapevoli degli esiti catastrofici di una situazione estrema come il fallimento dell’euro, possano agire in favore di specifici e conflittuali interessi, senza calcolarne le conseguenze a causa di processi decisionali sempre più complessi, e forse non altrettanto trasparenti almeno per il comune cittadino. 

Va soprattutto evitato che i singoli attori si pongano nella posizione di sfruttare la possibilità della catastrofe finale, come leva per assicurarsi prefigurati vantaggi. Fortunatamente le diversità rispetto ad allora sono notevoli, soprattutto avendo tutti i paesi più chiara l’essenza del problema e una maggiore fiducia reciproca, grazie alle istituzioni sovranazionali che all’epoca non esistevano. 

Ma ciò non basta se viene a mancare un’azione sistematica di compromesso tra gli interessi in contrapposizione. I rigori di un monetarismo non temperato della Germania e dei paesi nordici a fronte di una progressiva riduzione delle leve di politica economica dei paesi con maggiori squilibri economico/ finanziari quali quelli del sud Europa non sono un terreno facile da governare.

Tra alcuni di questi, fino a poco fa elencati tra i più deboli, sono emersi, da ultimo, anche i risentimenti di chi le riforme le ha fatte verso chi invece ha promesso senza mantenere. Ma non sono state efficaci neanche politiche di annuncio che hanno trovato difficoltà a realizzarsi, servendo a comprare tempo e a creare illusioni. 

E non lo sono nemmeno le polemiche, anche stizzite, di chi vuole dare lezioni agli altri e di chi quelle lezioni ne’ vuole ne’ può accettare. Non aiuta neanche il susseguirsi di previsioni economiche, con dati sfornati a raffica che, invece di aiutare, impediscono di valutare le decisioni in un contesto di più stabili conoscenze; anche questo è frutto degli eccessi della finanziarizzazione dell’economia che ha trasformato radicalmente il valore temporale delle informazioni e il suo interessato utilizzo. 

Con la speculazione messa in condizione di vantaggio assoluto, grazie al perenne stato di incertezza. La minaccia più grave, e dagli effetti non calcolabili, dell’uscita dall’Euro della Grecia finora tamponata è giunta al massimo della sua drammatizzazione e non si intravvedono, per il momento, azioni concrete per renderla inefficace. Crediamo che il cittadino medio, che non voglia cadere negli eccessi demagogici di entrambi i fronti, pensi a tre questioni essenziali, al momento senza risposta, come elementi fondanti della propria fiducia. 

Esse sono: carenza di leadership dei governanti e degli esponenti degli organi dell’Unione, deficit di rappresentanza di alcuni di essi, che non hanno certezze circa le posizioni dell’elettorato nazionale sulla migliore (e più indolore) ricetta per l’uscita dalla crisi, eccessiva concentrazione di potere nelle mani della Banca Centrale Europea. (Il demiurgo, anche nella tragedia greca intesa come genere teatrale, ha ruolo salvifico, ma ambiguo, quando supplisce il vuoto di altri). 

Il sentiment è che il mancato riequilibrio di questi scompensi difficilmente porterà ad accettabili soluzioni, anche perché, in non pochi casi, le situazioni dei singoli paesi, già diversificate per storia e condizioni di partenza, in questi anni non si sono certo avvicinate rispetto alle macro attività del credito, della finanza e del debito pubblico e quindi ai profili dell’economia reale. Speriamo che vi contribuisca, al più presto, l’Unione Bancaria e il mercato unico dei pagamenti, appena nati, condizioni necessarie ma non sufficienti, al di fuori di un più coeso quadro d’insieme. 

Non desideriamo dare ricette, in troppi si affannano a farlo. Anzi vogliamo aggiungere un’altra perplessità, anche a rischio di pressappochismo. Il cittadino comune non capisce perché una comunità di 550 milioni di abitanti, della massima civiltà e con storie tragiche e recenti di contrapposizioni, non sia finora riuscita a gestire le condizioni, per quanto precarie, di un paese che ne conta 10, con l’1,8% del Pil totale, scongiurando la rottura, di cui dice si temere massimamente le conseguenze, tanto più gravi quanto più difficilmente prevedibili. 

E si chiede se il “fantasma greco” doveva materializzarsi pure con l’aggravante della catastrofe post referendum, (si marcia ad horas con le banche chiuse da una settimana), essendo finora mancato ogni approccio strutturale al problema, ma non certo il ricorso a etichette d’ordine etico. Insomma, tutti ritengono di essere nel giusto e di avere in mano la soluzione, senza essere disposti a compromessi. 

Lungi da noi tirare in ballo, banalmente, il ricorrere della storia, ma deve essere chiaro fin d’ora che le responsabilità, come, per altre tragiche circostanze, ha cercato di dimostrarci il professor Clark, sarebbero anche in questo caso di tutti gli attori (soprattutto dei maggiori), per non aver saputo, come sonnambuli del XXI^ secolo, promuovere e governare efficacemente il gioco cooperativo dentro e fuori i rispettivi paesi. 

Ma volete mettere la soddisfazione di lasciare agli storici che verranno un così vasto campo di studi?

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