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Industria Nordest, il Covid svela la fragilità e reclama un nuovo paradigma

INTERVISTA A GIANLUCA TOSCHI, economista dell’Università di Padova e ricercatore della Fondazione Nordest – Durante la pandemia la “lean production” (zero scorte e zero magazzino) e la concentrazione delle produzioni in Asia: rivelano tutta la loro debolezza – E in alcuni distretti cominciano a scarseggiare anche i semilavorati – Per questo si comincia a ripensare il modello produttivo del Nordest regionalizzando le catene del valore e riaprendo le porte al reshoring

Industria Nordest, il Covid svela la fragilità e reclama un nuovo paradigma

Non è ancora a pieno regime la ripartenza della macchina industriale del Nordest. I segnali positivi che arrivano dai diversi distretti sono molteplici ma si registrano altresì alcune incognite. Si fanno sempre più diffuse, per esempio, le voci delle imprese che lamentano intoppi nell’approvvigionamento delle materie prime, tempi di consegna che si dilatano sempre di più e prezzi, al netto della curva inflazionistica, che si alzano. Dal legno ai materiali da costruzione, arrivando fino ai semilavorati più complessi, si registrano forti difficoltà di reperimento dei beni necessari per alimentare la “macchina terzista” del Nordest. In questo scenario si innestano inoltre le trasformazioni che si stanno profilando lungo l’organizzazione delle catene produttive mondiali. Gianluca Toschi, economista dell’Università di Padova e ricercatore della fondazione Nordest, ha curato proprio all’interno del Rapporto 2020 la parte relativa ai mutamenti nelle catene globali del valore per le imprese nordestine.

Professor Toschi, la pandemia ha aumentato ulteriormente i dubbi sulla sostenibilità di queste filiere lunghissime della manifattura globale?

«Le filiere produttive sono state progettate ed ottimizzate negli anni fino a diventare degli orologi di precisione. Molto efficienti ma anche molto fragili. Pensiamo alla “lean production”, zero scorte e zero magazzino. Un paradigma improntato alla massima efficienza ma che espone a rischi. Il Covid è stata la prima grande prova di forza e il sistema così strutturato non ha retto, o meglio non ha retto secondo le aspettative».

La pandemia cosa reso più evidente di questa fragilità?

«Dalla chiusura di Wuhan abbiamo chiuso un po’ alla volta tutto il mondo. La fragilità è data in primis dalla concentrazione fortissima di fornitori in Asia. Se l’Asia si ferma o cambia strategia, il resto del mondo sta a guardare. Ma non è solo questo: pensiamo al caso recente di Suez, il ritardo di una sola settimana ha fatto “impazzire” il sistema».

In questi mesi si è aggiunto anche il rischio legato all’approvvigionamento dei materiali industriali: che relazione c’è tra le trasformazioni in atto nelle filiere e questa scarsità di materiali?

«Sicuramente c’è di mezzo il cosiddetto “effetto frusta”, provocato dai continui “stop and go” dell’economia. Ma sembra comunque una tendenza generalizzata, dal legno all’acciaio, ci sono molti settori industriali che lamentano tempi di consegni lunghissimi e prezzi in forte aumento».

La dipendenza dell’economia occidentale nei confronti di specifiche aree del mondo, lontane geograficamente e lontane negli interessi, come cambierà le catene globali del valore?

«Le catene globali del valore (CGV) sono destinate a subire un significativo processo di regionalizzazione. Una parte sempre più rilevante degli scambi e della produzione industriale avverrà dentro le regioni del mondo, intese come Europa, Stati Uniti, Canada e Messico e Asia. Proiettare fuori regione le proprie reti produttive diventerà sempre più un investimento ad alto rischio. Sia per le questioni di cui abbiamo discusso sia per il timore di nuove fasi di imposizione di dazi. Se ho paura dei dazi europei nei confronti dei beni cinesi o indonesiani, meglio allora investire nella propria regione, ovvero nella propria area di libero scambio».

Questa nuova geografia dei capannoni cosa potrebbe significare per l’Italia?

«Nuove opportunità per chi le sa cogliere. Inoltre, le tecnologie di ultima generazione, la robotica e l’intelligenza artificiale permettono impianti di produzione sempre più piccoli e più efficienti, in grado di servire velocemente più mercati. La tecnologia riduce l’impatto delle economie di scale. Un’epoca di tassi di interesse bassi aiuta ancora di più questa propensione agli investimenti tecnologici».

E per il Nordest?

«Due regioni del cosiddetto Pentagono, come Veneto ed Emilia Romagna, presentano approcci e valori simili verso le catene globali del valore. L’Italia in generale ha una solida base manifatturiera, ma queste due regioni potrebbero avere caratteristiche ancora più attrattive per le operazioni di reshoring e di regionalizzazione».

La nuova politica estera di Joe Biden nei confronti di Cina, Russia e per esempio della Turchia, darà una ulteriore accelerazione al processo in atto?

«Aumenteranno le tensioni e saranno sempre più forti le spinte alla regionalizzazione. L’ultimo grande allargamento degli attori del commercio internazionale, nei primi anni Novanta, era spinto da un poderoso processo politico di “distensione”. Il contrario di quello che sta avvenendo oggi. Le grandi imprese potranno anche fidarsi della stabilità dei rapporti con la Turchia, ma sicuramente diversificheranno i fornitori e non dipenderanno interamente dagli stabilimenti turchi».

La politica internazionale sembra rientrata a pieno titolo nell’industria.

«Lo è sempre stata del resto».

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