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Industria musicale, esplode il fai-da-te

Nell’industria musicale è in corso una sorta di rivoluzione ben descritta su Ft dall’ex capo economista di Spotify – Un numero basta a rendere l’idea del cambiamento: nel 1984 nel Regno Unito sono stati pubblicati 6 mila album musicali mentre oggi i servizi di streaming rendono disponibili 55 mila nuove canzoni ogni giorno – C’è più musica e ci sono più musicisti anche se molti non riescono a tirare a fine mese- Ecco cosa sta realmente succedendo

Industria musicale, esplode il fai-da-te

Mamma mia!

Come abbiamo scritto più volte l’industria della musica e il mondo della musica sono il laboratorio della prossima industria culturale spinta furiosamente, anche dalla pandemia, nel territorio marziano del ciberspazio. E si tratta, veramente, del laboratorio del Dottor Jekyll, il luogo dove avviene una vera e propria mutazione di ogni forma conosciuta.

Per esempio, per la prima volta nella storia del modo di produzione capitalistico una crescita sbalorditiva dei consumi e dell’offerta non produce una proporzionale crescita del business, anzi si verifica un impoverimento dei player che prendono parte a questo fenomeno.

Torniamo a questo riguardo agli studi di Erik Brynjolfsson e dei suoi collaboratori alla Sloan School of Management del MIT.

Oggi le cose sembrano in via di miglioramento anche grazie a nuovi processi che stanno interessando il mercato della musica e la sua industria. Uno di questi è proprio il DIY (il fai-da-te) degli artisti che ha portato alla fioritura di nuovi e rivoluzionari scenari. Una risposta quasi obbligata a una sorta di proletarizzazione degli artisti che affollano la banchina del mercato spazzata dal temporale della pandermia.

Su questi temi è intervenuto, sulle colonne del “Financial Times” Will Page già capo-economista di Spotify ed autore del libro Tarzan Economics che dovrebbe uscire ad aprile 2021. Ecco le sue riflessioni.

Esplosione di artisti

Nel 1984, nel Regno Unito sono stati pubblicati 6.000 album musicali. Oggi, i servizi di streaming rendono disponibile un volume simile — 55.000 nuove canzoni — ogni singolo giorno.

Non c’è soltanto più musica, ma ci sono anche più musicisti. Dal lancio di Spotify nel 2009, il numero di cantautori inglesi è salito a 140.000 con un aumento 115 per cento, mentre quello degli artisti che pubblicano canzoni di uno sbalorditivo 145 per cento. Vent’anni fa c’erano cinque grandi etichette inglesi e al massimo due dozzine di distributori indipendenti; oggi Spotify ospita musica di 751 fornitori.

Non sorprende che ci siano anche molti più generi per classificare i pezzi musicali. Nel 2000, l’industria classificava tutta la musica del mondo in non più di una dozzina e mezzo di generi. Oggi, “everynoise”, l’acoustic map di Spotify, propone 5.224 generi, compresi gli inni copti, il romanticismo russo e, naturalmente, la nuova hit del lockdown, lo shanty.

Nuovi contenuti a valanga

La musica è stata una delle prime industrie messe a soqquadro dal ciberspazio. Il suo percorso ci mostra quello che sta compiendo e compirà tutta l’industria culturale. L’allunaggio al ciberspazio rimuove tutte le barriere all’entrata e succede di tutto e di più.

L’anno scorso sono usciti una marea di nuovi contenuti (più di 3 milioni e mezzo di libri, anche se solo un quinto erano nuovi titoli), quasi un milione di podcast (885.000 nuovi episodi — quasi due nuovi podcast ogni minuto), un numero enorme giochi per dispositivi mobili (88.000, in crescita del 50 per cento rispetto al 2019) e di serie TV originali (493 solo negli Stati Uniti, più di una al giorno).

In questo momento, le risorse degli investitori si stanno a riversando a slavina sui nuovi media. Negli ultimi due anni ci sono state sette acquisizioni di società di podcasting per più di 100 milioni di dollari ciascuna.

Proletarizzazione dell’artista

Tutto questo, però, non si è tradotto in maggiori risorse per i creativi. Forse sono proprio loro quelli che perdono di più da questo ambaradan. Ed è anche il motivo per il quale l’industria musicale consolidata sta effettivamente guadagnando bene grazie allo streaming.

Restano però molte bocche da sfamare. Molti artisti non sono riusciti ad acquistare il biglietto per salire sul treno ad alta velocità dello streaming. Ci sono posti contingentati e compartimentati come in Snowpiercer.

Una commissione d’inchiesta parlamentare nel Regno Unito ha messo in evidenza questa dicotomia. I politici sono stati subissati da testimonianze irate sui trend dell’industria musicale. Nadine Shah, candidata al Mercury Prize, ha detto ai parlamentari: “Sono osannata dalla critica, ma non guadagno abbastanza dallo streaming da pagare l’affitto… Semplicemente non sono pagata equamente per il mio lavoro”.

La cantautrice Fiona Bevan, che ha scritto successi per Lewis Capaldi e One Direction, è andata oltre, sostenendo: “In questo momento, gli autori di canzoni di successo stanno lavorando su Uber per sbarcare il lunario”.

Bentornata lotta di classe

Le tre maggiori etichette musicali, che incassano più di 1 milione di dollari all’ora dai ricavi dello streaming, hanno difeso il modello vigente, che vede la maggior parte degli artisti ricevere una royalty del 20–25 per cento sugli ascolti da streaming. Siccome i guadagni vanno prima a ripagare qualsiasi anticipo, ciò significa che un artista che riceve un anticipo di 100.000 euro deve vendere 500.000 euro di musica prima di ricevere altro denaro fresco.

Qui sta il conflitto. Quando un’etichetta musicale ha sborsato un consistente anticipo per una star, è costretta a investire di più in promozione e in pubblicità necessarie a trasformare le canzoni in successi. Per gli artisti meno conosciuti, invece, è pratica sborsare piccoli anticipi e semplicemente aspettare di vedere se qualcuno di loro diventa virale. È un po’ come il meccanismo della finanza: se devi alla banca 100.000 euro, hai un problema, se le devi 1 milione il problema è loro.

Non ci resta che il DIY (fai-da-te)

La risposta degli artisti a questo stato di cose è “si fa da soli”. Piuttosto che firmare un contratto discografico di 30 pagine, che alle volte richiede l’intervento di un avvocato costoso per negoziare alcuni punti, molti musicisti si stanno orientando verso servizi DIY come Distrokid e Emu-Bands. La loro offerta si sviluppa intorno a tre semplici punti: paghi una quota fissa, mantieni tutti i tuoi diritti e tieni tutte le entrate.

Il DIY ha preso piede. Eccome se l’ha preso. Nel 2020 le grandi etichette hanno pubblicato 1,2 milioni di canzoni; gli “artisti fai da te” ne hanno pubblicate ben 9,5 milioni. È un rapporto di 8 a 1 tra gli artisti che fanno da soli e le etichette che lo fanno per loro.

Lo streaming livella le opportunità

Anche se gli artisti che scelgono di “fare da soli” non hanno la capacità di sviluppare lo stesso tipo di investimento promozionale delle etichette, lo streaming tende a livellare le differenze. All’interno dello streaming, gli artisti DIY possono sempre più attingere a molti degli stessi dati e degli stessi strumenti di diffusione delle grandi etichette.

Usando la reportistica di YouTube, SoundCloud e Spotify, gli artisti possono accedere alle analisi che mostrano chi sono e dove sono i loro fan.

Platoon, acquistato nel 2018 da Apple, permette agli artisti di mantenere i loro diritti e avere accesso a servizi globali personalizzati. La piattaforma di streaming di video in diretta di Twitch, di proprietà di Amazon, ha avuto mille milioni di miliardi di minuti guardati nel 2020, con la musica che adesso gioca un ruolo di primo piano in Twitch.

Patreon, una piattaforma che permette agli artisti di iscriversi e ricevere compensi dagli abbonamenti, oggi distribuisce 2 miliardi di dollari ai creativi. L’industria globale della musica ha impiegato 12 anni per arrivare allo stesso risultato con le entrate dello streaming. Questi strumenti sono a disposizione di tutti, e sempre più artisti indipendenti ne fanno uso.

La sparizione dei concerti dal vivo

Per molti artisti in tutto il mondo, questi strumenti sono la migliore speranza di sopravvivenza. La pandemia ha spazzato via le esibizioni dal vivo, che erano la principale fonte di sostentamento per la maggior parte degli artisti. (Solo nel Regno Unito i consumatori hanno speso 2,5 miliardi di sterline in musica dal vivo nel 2019).

Mentre il Regno Unito considera se aggiornare le regole del copyright musicale, tutti gli altri paesi dovrebbero guardare questa industria come la dimostrazione vivente di ciò che accade quando le barriere all’ingresso cadono.

La pagnotta cresce sicuramente, ma il numero di creativi che ne vogliono una fetta aumenta ancora più rapidamente. Beh, che, allora, mangino brioche.

Fonte: Will Page, Music makes more money but has more mouths to feed, in “The Financial Times”, 20-21 febbraio 2021

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