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Industria e delocalizzazioni: tre su quattro ritornano

La pandemia ha ribaltato il fenomeno della delocalizzazione della manifattura. Sono molti i fattori in gioco e non è semplice rientrare. Ecco nomi, numeri e storie di un fenomeno in controtendenza

Industria e delocalizzazioni: tre su quattro ritornano

Relocation, reshoring, off shoring, delocalizzazione: se ne parla e se ne scrive molto perché la pandemia ha sconvolto tendenze consolidate in tutto il mondo. A partire dal principio, consigliato dalla finanza, che delocalizzare è sempre un vantaggio competitivo. E invece non lo è più e da qualche anno, come dimostrano i dati che diamo qui di seguito. 

La Bianchi, tornata da poco da Taiwan in Italia a far bici, su decisione della multinazionale proprietaria, deve pianificare la produzione al 2025, proprio perché le consegne da parte dei fornitori sono ormai a 900 giorni (da notare che la nuova fabbrica italiana ancora non c’è). I settori che meno hanno risentito del lockdown o perché non hanno mai smesso di lavorare e vendere o perché sono stati velocissimi nel seguire la forte ripresa della domanda sono soltanto quelli che hanno conservato la manifattura nel proprio paese. Le aziende che hanno delocalizzato nei decenni precedenti invece sono andate in blocco, e tuttora non ne sono uscite.

Vediamo i motivi, partendo dai numeri. I primi incontrovertibili dati li ha rilevati l’Istat, Istituto nazionale di statistica:, secondo il quale in Italia, tre aziende su quattro che avevano spostato la produzione all’estero stanno riportandola nel Paese. “Se aggiungiamo il fatto che l’80 per cento delle multinazionali – sottolinea Andrea Dallan, CEO della Dallan SpA – ha già elaborato piani per il rientro della produzione nel Paese (dati forniti da Bank of America), diventa evidente che quello a cui stiamo assistendo è un fenomeno estremamente importante e degno di nota.Un fenomeno che ha subìto una forte accelerazione a seguito dell’ondata pandemica, che ha aumentato la difficoltà di spostamento di merci e persone”. 

RESHORING, SEMBRA FACILE MA NON LO È

Molti esperti scrivono che la delocalizzazione non conviene più e che sarà molto a lungo così. Ma l’ondata di ritorno è molto più complessa di quanto sembra tant’è vero che viene chiamata con termini diversi secondo le modalità con le quali avviene e i risultati che produce. Ma per capire se si tratta di decisioni che si riveleranno o no economicamente sostenibili, è bene analizzare, in grande sintesi, 50 anni di delocalizzazione che hanno cambiato il volto di finanza e industria nel XX secolo. E come mai un virus abbia capovolto in un solo anno, il 2020, la direzione dell’intera economia mondiale. Da Ovest a Est nei decenni precedenti e ora, all’inverso, da Est a Ovest, ma con un ostacolo per molte aziende insormontabile: la delocalizzazione a suo tempo ha spesso fatto perdere un “capitale” aziendale più prezioso di quello finanziario e cioè il personale, i tecnici e gli esperti. Una perdita di competenze tecniche, scientifiche e manageriali non riparabile ne a breve né a medio termine. 

RESHORING E SANITÀ: DI NECESSITÀ, VIRTÙ

La pandemia nel 2020 ha causato in tutto il mondo un ingorgo tragico di richieste di presìdi medicali (mascherine, paracetamolo, protezioni antivirus, medicine da cure intensive…). Molti governi si sono accorti che la delocalizzazione selvaggia operata dalle multinazionali del settore a partire dagli anni 70 verso l’Asia e in particolare verso la Cina e l’India, aveva desertificato i magazzini dei sistemi sanitari nazionali. E in piena pandemia non sono mancati i governi che hanno vietato nel 2020 l’export di quei pochi prodotti fabbricati in siti industriali ancora rimasti nei confini nazionali. I primi reshoring hanno coinvolto proprio l’ambito sanitario, spesso finanziando le aziende dell’abbigliamento rimaste peraltro senza ordini (i negozi erano chiusi) nella fabbricazione di mascherine, camici, guanti e altri presidi tessili. Questo per quanto riguarda il settore sanitario. E gli altri?

RIPRESA: GLI ELETTRODOMESTICI CORRONO

Finito il periodo del lockdown, quali settori sono subito ripartiti? Quelli che potevano contare su manifatture di vicinanza grazie alla filiera corta e che più che ripartire non hanno mai smesso di lavorare. E cioè: grandi elettrodomestici e casalinghi di media e alta gamma, macchinari e macchine utensili, componenti elettrici, meccatronici, elettromeccanici, meccanici, tutto il gigantesco comparto del food, una parte (solo una parte) dell’industria della moda e, infine, l’intero comparto del legno e dell’arredo di qualsiasi materiale e tipologia, compresi la ferramenta e i componenti.

Il comparto mobile-illuminazione (dal design al prodotto finito tutto italianissimo) nel primo semestre del2021 ha messo a segno, dopo un pesante stop nel 2020, un +14,3 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. Una ripartita rapida, anche fulminante, potendo contare su fabbriche, distretti e fornitori in Italia. Il distretto delle Puglie, per esempio, con 3500 aziend, nel primo trimestre del 2021 ha fatto un +31,5 per cento di export. Quello di Milano-Monza-Brianza ha messo a segno un +30 per cento di fatturato e un +10,6 di produzione sul 2019.

“La ripresa del Paese – ha commentato Maria Porro, presidente del Salone del Mobile – comincia dalla casa”.  “L’export Italia di prodotti del Sistema Casa ha raggiunto nel trimestre scorso un nuovo massimo storico (615 milioni di euro) – scrive Marcello Antonioni – portando il consuntivo d’anno su valori di oltre il 32% superiori ai livelli pre-pandemici. L’Italia si conferma, all’interno dei paesi esportatori UE27, primo partner commerciale del mercato statunitense di prodotti del Sistema Casa, ampliando il divario – nel corso del 2021 – con i concorrenti tedeschi”.

RIPRESA: I SETTORI BLOCCATI

Quali settori invece sono andati in blocco? Come scrivevamo in apertura, quelli che hanno delocalizzato in tutto o in parte la produzione in paesi a basso costo della manodopera cioè molto molto lontani. Le aziende di questi comparti, ormai solo commerciali, sono ancora lì che attendono, a causa di una filiera molto lunga e totalmente incontrollabile, l’arrivo dall’Asia dei vestitini, delle pasticche, delle tomaie, delle borse, dei display, delle auto, delle moto, delle bici, delle mascherine, dei medicinali e dei piccoli elettrodomestici marcati made in Italy pur essendo frutto di un assemblaggio tra diversi paesi a basso costo del lavoro.

Ma problemi e colli di bottiglia sono dovuti anche delle materie prime e l’esempio più disastroso per l’Italia, è l’alluminio la cui industria, un tempo rinomata per la qualità e anche la quantità dei suoi prodotti, è stata perlomeno ridimensionata oltre che dal dumping cinese del 38 per cento, dalle private equity, proprietarie delle multinazionali del settore, e motore di delocalizzazione. Secondo gli esperti il deficit di quest’anno potrebbe lasciare il posto ad un surplus verso la fine dell’anno che una filiera lunga difficilmente potrà controllare mentre una filiera corta consentirebbe una grande flessibilità, evitando perdite pesanti.

LA MODA E IL FASCINO DI SERBIA E ALBANIA

Quella parte della moda che non ha delocalizzato o che comunque lo ha fatto molto limitatamente è una pattuglia che è ancora saldamente nelle mani di imprenditori italiani e che manifesta trend positivi di ripresa: Cucinelli, Armani, Ferragamo, Dolce&Gabbana, Prada, OVS…Dal 2008 la stampa italiana e quella estera hanno denunciato la presenza di personale sottopagato, soprattutto cinese (in particolare originario da Wenzhou), nelle tante piccole manifatture dei distretti conciari e tessili della penisola. Un vero e proprio dumping salariale che gli esperti chiamano delocalizzazione di prossimità. E che se in Europa non è la regola, in tutti gli altri paesi delle aree in via di sviluppo lo è e in condizioni sempre peggiori. Secondo Deborah Lucchetti che lavora per Abiti Puliti a Genova, la filiale italiana di Clean Clothes, una rete globale che mira a migliorare le condizioni dei lavoratori nel settore dell’abbigliamento “Il concetto di ‘Made in Italy’ è spesso immaginario, è una retorica”. E in effetti, si chiede Lucchetti, “cos’è il ‘Made in Italy? Se produco in Italia la parte creativa ma poi il prodotto finale potrebbe essere realizzato in Albania o Serbia?”.

 Delocalizzare in Italia conviene. Eppure la forza attrattiva dell’eleganza italiana è così potente che a volte la delocalizzazione assume un verso contrario: sono diverse le multinazionali del lusso che investono in Italia, attratte dalle nostre maestranze ma anche dalla possibilità di apporre sui loro prodotti un prestigioso marchio di origine. È proprio quello che è accaduto negli ultimi anni nella Riviera del Brenta, ormai valutata a livello mondiale come centro di produzione eccellente della scarpa da donna di qualità: un distretto produttivo tra Padova e Venezia con 520 aziende, più del 12% del settore calzaturiero nazionale e oltre 10mila occupati. Da qui escono prodotti firmati Armani e Prada, ma anche Louis Vuitton e Christian Dior.

FILIERA CORTA, COSA SIGNIFICA

Il comparto delle attrezzature professionali della ristorazione e dell’hospitality, è un vanto del made in Italia poiché ben l’80% di ciò che viene fabbricato in Europa proviene da siti produttivi italiani ed è quasi tutto rivolto all’esportazione. Il settore non ha lavorato per mesi e mesi ma non appena in tutto il mondo si sono riaperti alberghi, bar e ristoranti, è partita la frenetica richiesta dei nostri prodotti con un +40 per cento del fatturato export in tutti i continenti (in particolare Nord America, MO e tutta l’Europa), con un +20 per cento del fatturato Italia così che nei primi mesi del prossimo anno verrà recuperata la pesante perdita del 2020.

Con le loro fabbriche in Cina alcuni competitor americani hanno invece gravi problemi. Il secondo esempio di una continuità produttiva anche in pieno Covid, è l’italiana ROLD che, con i suoi 4 siti produttivi italiani, 80 per cento di export e l’8 per cento del fatturato in R&D, è n.1 mondiale nella componentistica avanzata (elettromeccanica, meccatronica, IoT) per elettrodomestici e smart home per la qualità, i brevetti e le lavorazioni su misura. Tanto che il World Economic Forum nel 2019 ha riconosciuto e inserito lo stabilimento ROLD di Cerro Maggiore (MI), tra i primi 16 “Lighthouse Plant” a livello mondiale. ROLD, unica PMI 100% italiana, è inclusa infatti nel Global Lighthouse Network of Advanced Manufacturers per le tecnologie tipiche di Industry 4.0 in ottica di operatività, sostenibilità ed impatto ambientale. Unico produttore di componentistica in grado, proprio per le sue fabbriche italiane, di realizzare prodotti su misura del cliente (anche cinese) e in tempi molto rapidi. E che marcia a pieno ritmo senza interruzioni.

PICCOLI LOTTI, FREQUENTI E SUBITO

Dietro molti ritorni c’è l’assoluta impossibilità di seguire, da molto lontano, la regola commerciale ormai imperante e non solo in Europa: piccoli lotti, subito, e frequenti per seguire i veloci cambiamenti dei gusti dei clienti. Un insieme di fattori sempre più difficili da sostenere perché lo impedisce e in futuro lo impedirà ancora di più la rete di trasporti diventata enormemente costosa. L’esempio più illuminante è quello della spagnola Zara che, proprio per essere competitiva ha dovuto rivedere il suo sistema produttivo riportando in Europa alcune attività di fornitura.

La fondazione della Commissione Europea Eurofound segue questi trend e il suo European Reshoring Monitor elenca muniziosamente le operazione di rientro industriale in patria dalla Cina e da altri paesi di società europee a partire dal 2015, con nomi illustri: Benetton, Calzaturificio Veneto, OVS, Safilo, Piquadro, Falconeri, Manifattura Rossi, Esaote, Artsana, Diasorin, Vittoria Assicurazioni, Unicredit, Jacuzzi, Angelini, Reno de’ Medici, Vimex, Armani (dalla Svizzera!), Diadora, Prada, Steelco, Fastweb, Natuzzi.

NUOVI RICCHI E PRODOTTI ORIGINALI

Le ragioni? Oltre alle recenti impennate dei trasporti e delle materie prime, ci sono contraffazioni sfacciate, limitate competenze dei dipendenti locali, mancata tutela della proprietà industriale, tempi lunghi, riduzione progressiva del differenziale di costo del lavoro, dazi, mancanza di flessibilità dei fornitori locali…..Inoltre c’è un altro cambiamento che renderà in molti casi non consigliabile la delocalizzazione a grandi distanze e cioè che i nuovi ricchi comprano le grandi firme se queste sono realmente fabbricate nei paesi di riferimento.

Quando Prada aprì una fabbrica in Cina, qualche anno fa, per vendere soprattutto ai cinesi, i distributori locali sconsigliarono subito questa soluzione poiché il valore intrinseco del brand, per i cinesi, è legato strettamente al Made in Italy vero, di origine. E Prada chiuse l’esperienza rapidamente. Da notare che sono in atto e si moltiplicheranno accordi tra l’Europa e paesi extraeuropei in funzione anti-contraffazione come quelli (con eccellenti risultati) con il Canada, con la Corea e con la Cina. Questo ultimo ha avuto lo scopo di proteggere 100 prodotti geograficamente indicati. Di questi, 25 sono italiani e 26 sono francesi. Sul mercato cinese da oggi sono protetti da contraffazioni e imitazioni proprio grazie a interventi delle autorità cinesi.

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