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Ilva, ecco perchè la riconversione è irrealistica. L’esempio da seguire? Cardiff

La bonifica interamente a carico dello Stato finalizzata alla riconversione dell’area, ipotesi apparsa sul Sole 24 Ore, è del tutto irrealistica – Bonifica e progetto di riutilizzo dell’area devono andare invece di pari passo e fare capo ad un soggetto unico, dove concorrano sia il pubblico sia i privati, come in Galles.

Ilva, ecco perchè la riconversione è irrealistica. L’esempio da seguire? Cardiff

Sul Sole 24 ore di mercoledì  6 dicembre Gian Maria Gros Pietro e Carlo De Benedetti hanno affrontato il problema dell’Ilva di Taranto da due opposte angolazioni: quella della bonifica finalizzata alla continuità dell’attività siderurgica ( Gros Pietro ) e quella della bonifica ( interamente a carico dello Stato ) finalizzata alla riconversione dell’area (De Benedetti ). Mentre la prima ipotesi appare realistica, anche se di difficile realizzazione, la seconda è invece del tutto irrealistica. Una volta cessata l’attività produttiva, che i giudici considerano la causa dell’inquinamento e dunque la fonte del reato, l’unica cosa che l’azienda è tenuta a fare è  quella di mettere in sicurezza gli impianti e l’area e di assicurarne la vigilanza. La bonifica vera e propria, quella propedeutica cioè  ad un eventuale riutilizzo del sito,  può essere rinviata sine die. A meno che non sia lo Stato, come suggerisce De Benedetti, a farsene carico accollandosene i costi nella (dubbia ) speranza di potersi un domani rivalere sulla proprietà, oppure  sia un gruppo privato a farlo  nella convinzione che la futura valorizzazione dell’area possa coprire i costi della bonifica. Due ipotesi molto remote  e assai  poco realistiche.

L’unico effetto certo della cessazione dell’attività produttiva, richiesta dalla Magistratura e voluta dai Verdi e, adesso, anche da De Benedetti, sarebbe la rottamazione dell’area e la sua successiva e ineluttabile vandalizzazione.  Un disastro economico, sociale ed ambientale immane  che si può   evitare soltanto  se si segue la via indicata dal decreto legge:  la via, cioè, della collaborazione fra l’impresa, le istituzioni (ivi compresa la Magistratura ) e le organizzazioni sindacali per realizzare in tre anni il piano di ambientalizzazione del ciclo siderurgico nel quadro della continuità produttiva. E’ una via stretta, anzi, strettissima, ma non impossibile da percorrere. Possiamo farcela.

Perché allora De benedetti la osteggia?  Non per realismo  (è inutile provarci, meglio lasciar perdere) ma, temo, per un pregiudizio antindustriale. De Benedetti non contesta soltanto la gestione dell’Ilva da parte dei Riva, i cui meriti non riconosce e che, anzi, chiaramente disistima, ma contesta l’idea stessa di avere creato a Taranto un grande centro siderurgico a ciclo integrato. Farlo è stato un errore dell’Iri e dello Stato, punto e basta. Che Taranto abbia segnato una svolta nella storia della siderurgia e che sia stata una delle leve del miracolo economico italiano sembra non contare nulla. Sono cose  del passato, come al passato appartiene ormai l’Olivetti e, fra poco, anche la Fiat.  Archeologia industriale, il futuro è altrove, è nell’impalpabile.

Con tutto il rispetto va detto che  De Benedetti sbaglia: l’industria manifatturiera, e anche quella siderurgica, non solo è e resta fondamentale ai fini dello sviluppo ma ha davanti a se un grande futuro, a condizione ovviamente che sappia rinnovarsi . Nel suo recente “ The new industrial revolution” Peter Marsh indica in Arvedi (l’acciaiere cremonese ) un esempio di innovazione del ciclo siderurgico di straordinaria importanza a livello mondiale  e lo stesso dice della Danieli, l’azienda friulana che costruisce acciaierie in tutto il mondo. Persino nei confronti del gruppo Riva ha parole di apprezzamento.

Se un errore Oscar Senigallia ( il padre della siderurgia pubblica ) ha fatto  non è stato dunque  quello di  costruire l’impianto di  Taranto come dice De Benedetti  ma ,casomai, di avere ceduto alle pressioni sindacali (la Fiom di Trentin innanzitutto  ) e politiche (DC e PCI )  per raddoppiarlo. L’errore , anche della magistratura, è stato quello  di non avere denunciato quegli amministratori locali che hanno consentito che il quartiere Tamburi si espandesse sino a lambire lo stabilimento e che oggi magari sono in prima fila nel lamentarne le più che prevedibili conseguenze. A questi errori si deve  porre rimedio e la via per farlo  è quella  della innovazione tecnologica dell’intero ciclo produttivo che è indicata  nella Autorizzazione Integrata Ambientale che ora è legge e che si spera tutti, impresa , amministratori e magistrati, si impegnino a  rispettare.

De Benedetti nel suo intervento una cosa giusta però l’ha detta e cioè che le aree industriali dismesse, di cui l’Italia è disseminata, possono e debbono essere utilizzate come leve per lo sviluppo dei territori. Ciò è possibile, a mio avviso,  a condizione che si faccia tesoro dell’esperienza, ahimè!, negativa di Bagnoli. A Bagnoli si è separata la fase della bonifica da quella del riutilizzo e della valorizzazione delle aree per timore di speculazioni. E’ mancato un progetto ed è mancato un Responsabile unico della sua realizzazione e il risultato è  stato che la bonifica si è fatta ma l’area è tutt’ora un cumolo di rottami (come accadrebbe ineluttabilmente a Taranto ). Bonifica e progetto di riutilizzo dell’area devono andare invece  di pari passo e fare capo ad un soggetto unico cosi come , alla realizzazione del progetto, debbono poter concorrere sia  il pubblico che i privati. E’ stato fatto con successo a Cardiff e, se ci sono riusciti in Galles, non c’è ragione che non possiamo riuscirci anche noi.

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