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Il dollaro, l’euro, l’inflazione e i loro effetti su Borse e bond

Da “IL ROSSO E IL NERO” di ALESSANDRO FUGNOLI, strategist di Kairos – L’andamento delle valute va seguito attentamente perchè influenza i mercati finanziari – Ecco che cosa fare con bond e azioni

Il dollaro, l’euro, l’inflazione e i loro effetti su Borse e bond

È sottovalutato il dollaro?

Dopo la forte discesa da inizio anno il dollaro ha oggi valutazioni più equilibrate ma non può ancora essere definito sottovalutato. Non è il
disavanzo delle partite correnti americane a preoccupare. Il deficit (il flusso) non è particolarmente elevato ed è finanziabilissimo, mentre la posizione patrimoniale netta (lo stock) continua a essere sana, perché l’America è lunga di equity estera che sale di valore e corta di debito che non costa quasi niente servire. In pratica l’America consuma più di quello che produce ma finanzia la differenza con le plusvalenze del suo portafoglio, fatto di imprese multinazionali sull’attivo e di bond da ripagare sul passivo.

Cosa pesa, allora, sul dollaro?

Demeriti propri e meriti altrui. Tra i demeriti propri c’è la perdita del premio per le possibili riforme strutturali, in primo luogo quella fiscale, nella quale il mercato ha smesso di credere fino a prova contraria. Poi c’è una crescita dell’economia modesta in un ciclo maturo, che sembra indurre la Fed ad ammorbidire i toni rispetto ai futuri rialzi dei tassi. E non va dimenticata la volontà politica dell’amministrazione Trump di ottenere con un dollaro più basso quella crescita in più che non è riuscita a conseguire con le riforme e con la riapertura del negoziato sui trattati commerciali internazionali. Tra i meriti altrui ci sono la stabilizzazione dell’Europa, la buona crescita dell’Asia e il miglioramento della posizione di molti paesi emergenti.

Che cosa potrebbe sostenere il dollaro?

Il differenziale dei tassi rimane molto favorevole. Basta pensare che un Treasury decennale rende di più di un Btp italiano e quasi il quintuplo di un Bund tedesco, mentre il decennale giapponese non rende nulla. Rimane poi aperta la possibilità che l’economia americana riacceleri nella seconda metà del 2017. Se poi il Congresso dovesse riuscire a varare qualche riforma il dollaro recupererebbe certamente terreno. Al momento però acquistare dollari sembra prematuro.

Dove può fermarsi l’euro?

L’euro è ancora sottovalutato, ma da qui in avanti l’avvicinamento al livello di equilibrio di lungo periodo, tra 1.20 e 1.30 contro
dollaro, sarà più impegnativo. Fino a qui abbiamo visto un grande rally di sollievo per il venire meno, con le elezioni francesi, dei rischi esistenziali per l’unione monetaria e politica. Questo sollievo ha poi coinciso con l’arrivo dei primi risultati della politica monetaria e valutaria di questi anni, che ha mantenuto l’Europa in terapia intensiva e ricostituente.

Oggi l’Europa è indubbiamente più forte, ma è comprensibile che i policy maker la vogliano mantenere sotto osservazione per qualche tempo prima di dichiararla completamente guarita. Per ora si è sospesa la terapia intensiva valutaria (l’euro si è rivalutato) ma non quella monetaria (i tassi rimangono sotto zero). Se Macron farà passare le sue riforme strutturali, come al momento sembra probabile, e se l’industria esportatrice tedesca avrà assorbito senza troppe conseguenze la perdita di profitti (ma non di quota di mercato) derivante dalla rivalutazione, l’euro sarà pronto per un rialzo ulteriore. Per il momento, riambientarsi per qualche tempo intorno a 1.20 sarebbe meglio. Andare subito oltre comporterebbe problemi sul fronte dell’inflazione, che subirebbe una pressione verso il basso, e su quello della crescita, che rallenterebbe.

L’inflazione è definitivamente morta?

I mercati lo pensano, ma le banche centrali non ne sono così convinte. Se l’economia globale riaccelera davvero, ritengono, la domanda raggiungerà l’offerta potenziale. Se non interverrà un aumento della produttività, possibile solo con una ripresa degli investimenti, l’offerta non crescerà abbastanza da tenere a freno i prezzi. Sia pure con le dovute cautele, quindi, le banche centrali vorrebbero alzare i tassi, quanto meno quelli nominali. A frenarle sta però intervenendo la debolezza del dollaro che, come di consueto, ha un potente effetto reflazionistico perché costringe il resto del mondo a rinviare ogni misura restrittiva, pena un rafforzamento eccessivo del cambio.

Il dollaro debole ha già indotto la Banca del Giappone a rafforzare il Qe, la Bce a farsi ostentatamente vaga sul tapering e la Banca d’Inghilterra a mantenere i tassi allo 0.25 nonostante un’inflazione prossima al 3 per cento.

Che cosa comporta tutto questo per bond e azioni?

Il dollaro debole, obbligando le banche centrali a mantenere i tassi bassi e la liquidità abbondante, esercita una forte azione di supporto generale nei confronti degli asset finanziari, ma non in modo omogeneo. Gli esportatori americani sono avvantaggiati, quelli europei danneggiati.

In pratica il portafoglio obbligazionario andrà mantenuto in euro. Quello azionario includerà azioni americane (con copertura almeno parziale del cambio) e società europee orientate al mercato interno.

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