Gli Stati Uniti puntano a frenare l’ascesa economica della Cina con dazi, sanzioni e restrizioni tecnologiche, mentre l’Europa cerca un equilibrio tra strategia e interessi commerciali. Pechino, però, ha una carta potente: il controllo delle terre rare, essenziali per auto, armamenti e tecnologie avanzate. Il risultato? Il tanto invocato “decoupling” si sta trasformando in un negoziato continuo, che ieri ha però registrato un accordo di principio tra Usa e Cina a Londra. Ma è proprio questa incertezza gestita, unita a una crescita globale solida e a un’inflazione sotto controllo, a rassicurare i mercati. Almeno per ora.
Nell’ultimo episodio del podcast “Al 4° Piano”, Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners, fa il punto sul “divorzio impegnativo” dalla Cina e spiega perché i mercati sembrano gradire questa situazione.
Il “divorzio impegnativo” dalla Cina
Negli ultimi anni, la priorità strategica degli Stati Uniti è chiara: contenere la Cina. Come sottolinea Fugnoli: “la Cina produce troppo, risparmia troppo, cresce troppo, esporta troppo e bisogna rallentarne la corsa se si vuole evitare che il primato globale americano venga insidiato ed eroso giorno dopo giorno”.
L’Europa, invece, si muove su un terreno più delicato. “Esporta molto in Cina e non vuole perdere un mercato così importante, soprattutto ora che il mercato americano diventa più chiuso e meno redditizio,” spiega Fugnoli. Tuttavia, anche l’Europa condivide la strategia americana, fatta di parole d’ordine come decoupling e derisking, cioè distanziarsi gradualmente e ridurre i rischi economici legati alla Cina.
Dazi, terre rare e “divorzio” industriale
Ricordate la campagna elettorale di Trump? Dazi al 60%, poi saliti al 130%, per poi scendere a un più “diplomatico” 30% dopo trattative con i cinesi in Svizzera. Fugnoli commenta con un pizzico di ironia: “Non è stata vera pace, però, e nemmeno un armistizio, tanto che le due parti hanno quasi subito ripreso a provocarsi. L’America ha aumentato la portata delle sue sanzioni sui prodotti ad alta tecnologia, mentre la Cina ha fatto ricorso alla sua arma strategica, il blocco dell’esportazione di terre rare”.
Le famigerate terre rare: materiali critici per la tecnologia moderna, prodotti quasi esclusivamente dalla Cina, che ne controlla l’intera filiera, dalla lavorazione all’esportazione. Anche se queste risorse costano “solo” un centinaio di euro al chilo, trasformarle richiede procedure complesse e inquinanti, di cui solo Pechino oggi ha il know-how. “Perché l’Occidente si doti di queste procedure occorreranno almeno cinque anni, c’è chi dice anche il doppio,” avverte Fugnoli. Nel frattempo, la nostra industria, dall’auto agli armamenti, rischia di dover cedere al ricatto economico cinese “visto che le nostre scorte sono ai minimi”, evidenza lo strategist.
Un fronte comune e negoziazioni continue
Sul fronte diplomatico, però, gli Stati Uniti sembrano giocare bene le proprie carte. Hanno costruito un fronte comune con paesi chiave, dall’India ai paesi arabi, e mantengono l’Europa e il Giappone nella loro sfera di influenza. “L’arma cinese delle terre rare è però formidabile e i cinesi cercheranno di massimizzarne l’effetto,” conferma Fugnoli, ma sarà gestita come una leva, con licenze flessibili, esattamente come fa l’America con semiconduttori e tecnologie avanzate.
Il risultato? “Le terre rare e i semiconduttori sono come i figli in una causa di divorzio. Costringeranno cioè gli ex partner a rimanere in contatto e a non abbandonarsi troppo all’aggressività e al risentimento. Tutto dovrà essere negoziato non una volta sola ma continuamente”.
Mercati tranquilli ma occhio al futuro
Cosa significa tutto questo per i mercati? Fugnoli è piuttosto ottimista: la crescita globale è positiva ovunque, con l’America in accelerazione, l’Europa che riprenderà slancio l’anno prossimo e la Cina con misure espansive pronte a partire.
Inoltre, l’inflazione sembra sotto controllo, permettendo alle banche centrali di abbassare i tassi di interesse. “Quello che si temeva ad aprile, ovvero un brusco rallentamento del commercio internazionale, gli scaffali vuoti nei grandi magazzini, la corsa agli accaparramenti e un forte rialzo dei prezzi, ebbene, di tutto questo non c’è ancora traccia e se non c’è stata traccia fino ad adesso non ce ne sarà molta nemmeno nelle prossime settimane”.
Certo, le sfide non mancano: “Ridimensionate, dunque, le paure di stagflazione, fra qualche tempo, probabilmente, riappariranno quelle di inflazione. Tutti stanno infatti spingendo sull’acceleratore fiscale, quasi tutti anche su quello monetario. Dall’altro lato, però, si è bloccata l’immigrazione negli Stati Uniti. Produrre di più con meno persone, se non è supportato da un aumento della produttività, può produrre inflazione salariale”, spiega lo strategist.
Per ora, però, borse e bond restano su livelli sostenibili. Insomma, il “divorzio” con la Cina è impegnativo, ma almeno per i mercati, sembra meglio che restare in una convivenza troppo turbolenta.