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Il derby Monti–Giavazzi/2 – Non basta dire mercato

Lo scontro dei due professori della Bocconi continua sulle pagine di FIRSTonline – I due economisti hanno una caratteristica comune: vedono il mercato come la via maestra per superare la stagnazione attuale – Ma il mercato di oggi non è quello del passato e la crisi del 2008 è stata causata proprio dall’incapacità dei mercati di autoregolarsi

Il derby Monti–Giavazzi/2 – Non basta dire mercato
Anche se con impostazioni o sfumature diverse, Mario Monti e Francesco Giavazzi considerano una più solida e diffusa “cultura del mercato” la via maestra per superare la crisi attuale. Si ritiene che pochi studiosi seri possano, o vogliano, criticare la funzione positiva del Mercato, specie se questo è confrontato con il modello di economie pianificate del socialismo reale (abbandonate con la caduta del muro) o delle economie con elevato intervento dello stato. Tantomeno chi scrive intende criticare il modello dell’economia di mercato. Tuttavia, non si può dimenticare che la profonda crisi scoppiata nel 2008 è stata causata proprio dalla inefficacia della “autoregolazione del mercato” e dalla propensione dei capitali finanziari a eludere controlli e sistemi fiscali muovendosi rapidamente (come vorrebbe Giavazzi) in un contesto globale alla ricerca di facili e immediati guadagni speculativi.
La mobilità del capitalismo consente di fare emergere gli utili nei paesi con tassazione più bassa, di effettuare gli investimenti in Paesi che garantiscono incentivi o nei quali vi è un basso costo del lavoro a causa della mancanza delle più elementari tutele della persona, di attaccare valute e determinare enormi turbolenze finanziarie che mettono in discussione addirittura le forme di democrazia rappresentativa o di democrazia tout court.

La mia stima, già molto elevata nei confronti del Presidente Monti, è enormemente cresciuta da quando ha accettato la difficile responsabilità di governo, che lo ha esposto non solo ai Derby Bocconiani, alle fibrillazioni dei partiti e ai conflitti sindacali, ma anche ad alcuni pesanti attacchi personali dei partiti di opposizione e della rete.

Non vorrei pertanto essere accusato da Lui, di superficialità e inesattezze se rilevo che la decisione di Marchionne di investire in Serbia, che lui ha difeso davanti all’Assise di Milano di Confindustria, sembra essere stata determinata da agevolazioni statali e che l’operazione Chrysler sia stata possibile a seguito di un significativo appoggio del governo USA nella fase più nera della crisi del settore automobilistico.

Ciò mi consente di introdurre una argomentazione spesso dimenticata dagli opinionisti e analisti economici. Il mercato dell’era della globalizzazione non è nemmeno lontano parente di quelli presentati nei “Sacri testi” dell’Economia su cui sudano milioni di studenti in tutto il mondo, spesso dovendosi confrontare con complesse formule matematiche costruite sull’ipotesi astratta di razionalità che sta alla base di teorie, formulate alla fine dell’800 e inizio ‘900. Non è lontano parente neppure dei modelli di economia sociale di mercato o dei mercati nei quali prevale la simmetria delle informazioni tra i diversi soggetti che in essi operano. Non è lontano parente di mercati attuali, nei quali prevalgono non le imprese efficienti ma quelle che ottengono la protezione di potentati politici, che evadono le tasse e ricorrono alla corruzione per vincere gare ed appalti pubblici o per fornire altre imprese private.

I mercati di oggi, finanziari, delle materie prime, di molti beni di consumo e servizi, sono dominati da poche decine (o poche centinaia) di grandi gruppi globali, da imprese controllate direttamente o sottoposte a forte regolazione da parte di Stati (si veda Cina, Paesi petroliferi, Russia dove gli oligarchi delle’Economia, formalmente privata, possono vivere solo se non si oppongono al potere politico), da fondi di investimento e da fondi sovrani in grado di muovere miliardi di dollari e euro e di affossare intere economie.

L’effetto di questo tipo di mercato è la forte concentrazione della ricchezza: si possono citare i dati secondo cui: l’1% della popolazione degli Stati Uniti detiene oltre il 50% della ricchezza –  alcune statistiche dicono il 66%; che il 10% della parte più ricca della popolazione italiana detiene il 45% e oltre della ricchezza; che in India, di fronte ad alcune centinaia o poche migliaia di super ricchi e 100-150 milioni di benestanti restano quasi un miliardo di persone in condizioni di povertà quasi assoluta; che anche nella Cina, dopo un boom economico ventennale, di fronte a qualche migliaio di super ricchi, qualche milione di benestanti con reddito medio-alto, 200-250 milioni di persone che possono consentirsi consumi superflui (pagando il caro prezzo di lavori massacranti e nocivi) sta circa un miliardo di persone che hanno poco più della ciotola di riso o del pezzo di pollo che costituiva l’obiettivo di Mao. Senza parlare dei 2,7 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno e oltre 1,5 miliardi di persone che non hanno accesso all’acqua potabile. Anche il modello tedesco di economia sociale di mercato sembra essere molto solidale all’interno e quando si tratta di difendere gli interessi nazionali, ma poco solidale nei confronti dei partner europei quando essi chiedono politiche di crescita.

Senza riflettere a fondo e in modo creativo su questi aspetti, il mercato potrebbe non essere la soluzione, ma continuare ad essere parte del problema.

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