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Google, un ex dipendente accusa: la corsa al social e la pubblicità hanno rovinato l’azienda

Sul suo blog su Microsoft James Whittaker, ex dipendente di Google, spara a zero sul colosso di Mountain View e sul suo nuovo Ceo Larry Page – “Ormai è diventata una compagnia di pubblicità” – Secondo lui la corsa al social e Google+ avrebbero rovinato l’azienda – “La vecchia Google era un gran bel posto per lavorare. La nuova?”.

Google, un ex dipendente accusa: la corsa al social e la pubblicità hanno rovinato l’azienda

Non sei più quella di una volta”. Sappiamo tutti che tante storie d’amore finiscono in questo modo, con queste parole e questa amara consapevolezza, la certezza, cioè, che qualcosa, nell’intima natura dell’oggetto amato, si sia irremediabilmente compromesso, e che niente possa tornare più come prima.

L’oggetto amato, ormai non più, in questo caso è un colosso dell’informatica, ovvero Google, mentre l’innamorato deluso risponde al nome di James Whittaker, ex dipendente dell’azienda di Mountain View, passato, ma sarebbe più giusto dire tornato, ai rivali di Microsoft.

Ed è proprio dal suo blog su Microsoft (dettaglio, questo, che non fa altro che aggiungere pepe alla vicenda) che Whittaker lancia strali nei confronti di Google, del nuovo Ceo Larry Page (reo, secondo lui, di aver provocato il declino della società) e della frattura insanabile che l’avrebbe costretto a licenziarsi, Google+ e tutta la disperata corsa al social (e alla pubblicità che ne consegue) della sua ex azienda, come verso un nuovo West.

Ma partiamo dall’inizio, dalla fase idilliaca di questa storia, quando “Google assumeva persone intelligenti e gli consentiva d’inventare il futuro”. “Durante il tempo passato lì” prosegue nel suo lungo post “ mi sono innamorato abbastanza della compagnia. Ho presentato quattro Google Developer Day, due Google Test Automation Conference e sono stato un prolifico contributore del blog Google testing”.

Ma quelli erano tempi diversi, secondo Whittaker, tempi in cui Google era una compagnia principalmente di tecnologia, in cui l’advertising stava sullo sfondo, mentre quando se n’è andato, dopo gli “ultimi tre mesi di disperazione” era diventata l’ombra di se stessa, “una compagnia di pubblicità, con un solo obiettivo, calato dall’alto”: il social, per l’appunto, vero e proprio punto di non ritorno di questa storia, e lento inizio della sua inesorabile fine, e quindi Google+.

Nella sua elaborazione del lutto, Whittaker parte dalla base, dal nome, Google+, “un nome terribile che dava la sensazione che Google e basta non fosse abbastanza”. E poi parla dell’ossessione generale per il social, una vera malattia per la società: “La ricerca doveva essere social. Android doveva essere social. YouTube, una volta gioiosa nella sua indipendenza, doveva essere… beh, avete capito. Ciò che è anche peggio, è che l’innovazione doveva essere social. Le idee che non mettevano Google+ al centro dell’universo erano una distrazione”.

La delusione, come sempre, nasce dall’illusione, dal fatto di aver creduto ad una promessa di felicità non mantenuta. “Se Google avesse avuto ragione, lo sforzo sarebbe stato eroico e chiaramente molti di noi avrebbero voluto far parte di quel risultato. Ci ho creduto. Ho lavorato su Google+ come direttore dello sviluppo e ho scritto un sacco di codice”.

Ma niente è cambiato, la corsa al West era già finita, la frontiera già conquistata e i bufali scuoiati tutti. Non c’era più spazio per nuovi pionieri: Google era arrivata tardi e male. “Il social non è un prodotto, il social è dov’è la gente e la gente è su Facebook“, queste le crude parole, amara verità, della figlia di Whittaker di fronte alle demo di Google+ sottopostegli dal padre.

“Google era il bambino ricco che, dopo aver scoperto di non esser stato invitato alla festa, fa la propria festa in solitudine. Il fatto che nessuno è venuto alla festa di Google è diventato il classico elefante nella stanza”, il convitato di pietra in una mensa in cui tutti guardano nel proprio piatto per evitare di guardarsi intorno.

Il post si conclude con una domanda, la cui risposta, retoricamente, rimane appesa: “La vecchia Google era un gran posto per lavorare. La nuova?“.

 

Leggi l’articolo sull’Huffington Post.

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