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FUGNOLI (Kairos) – Gli scenari dopo il D-Day della Bce: ora il Qe all’europea diventa più probabile

DAL BLOG “IL ROSSO E IL NERO” di ALESSANDRO FUGNOLI (Kairos) – Al di là delle apparenze, le banche centrali saranno sempre più espansive – Con queste premesse il Qe europeo è più vicino, si tratterà solo di valutarne politicamente i tempi e i modi – La banca centrale-guida, la Fed, lo sta facendo capire in tutti i modi – Gli effetti su Borse e bond.

FUGNOLI (Kairos) – Gli scenari dopo il D-Day della Bce: ora il Qe all’europea diventa più probabile

Una volta toccato il fondo, si diceva un tempo, si può solo risalire. Una volta toccato il fondo, si dice oggi, si inizia a scavare. Lo zero è stato, dall’alba della civiltà, il limite minimo invalicabile per i tassi d’interesse. I sovrani, teste coronate o banche centrali, hanno penalizzato i creditori con l’inflazione, con la ristrutturazione del debito o con il default, ma i tassi nominali non hanno bucato lo zero nemmeno in Giappone. La Svizzera in passato o la Danimarca dal 2012 sono eccezioni motivate tecnicamente, non decisioni di policy con un significato simbolico profondo. La vita per i banchieri centrali è stata difficile in questi anni. Scavare sotto il pavimento è più faticoso che scendere circondati dall’aria o dall’acqua. Scavare è stressante anche intellettualmente, perché significa sospendere le leggi economiche in cui molti sono stati cresciuti e dichiarare lo stato d’eccezione.

Difficile, dunque, ma a tutto si fa l’abitudine. Una volta rotto un tabù, è più facile violarne un altro. Avventurarsi in un mondo nuovo è meno impegnativo man mano si procede. A un certo punto, se il mondo resta in piedi, si va avanti con meno dubbi, più spediti. Alla fine ci si prova anche gusto e si può perfino diventare temerari. Ci fu un tempo, anche se ce lo siamo quasi scordati, in cui, superato il momento peggiore di una crisi, le banche centrali aspettavano solo un paio di trimestri per iniziare a normalizzare le loro politiche alzando i tassi. Dopo la recessione del 2001 venne vista come aggressiva la Fed di Greenspan che attese la primavera del 2003, complice anche la Guerra del Golfo, per avviare un lungo ciclo di rialzo dei tassi. Si aspettava poco, dunque, e una volta partiti nella normalizzazione si procedeva spediti. Oggi, per contro, dopo cinque anni di ripresa globale e con borse come New York triplicate di valore, il Quantitative easing, dapprima endemico, è diventato regola quasi universale e l’eccezione è la sua sospensione, non la sua vigenza. 

Certo, si può obiettare che la Fed è in fase di tapering, di spegnimento progressivo del Qe e che l’anno prossimo inizierà ad alzare i tassi. È vero, ma la riduzione di fabbisogno da parte del Tesoro americano è ancora più grande della riduzione di acquisti di titoli da parte della Fed. Quanto ai tassi, la nostra scommessa è che la componente maggioritaria della Fed sia certamente disponibile ad alzarli ma, e qui sta il punto decisivo, meno di quanto non aumenterà l’inflazione. Quanto alla Bce, al di là delle misure decise oggi, unanimemente considerate nella parte alta delle attese, è una piccola frase della conferenza stampa di Draghi che ci dice, più di tutto il resto, come stia cambiando l’assetto mentale in Europa e, in particolare, in Germania. A una domanda sulle motivazioni che stanno dietro la fine della sterilizzazione delle iniezioni di liquidità del Securities Markets Programme, Draghi ha risposto con grande candore che l’inflazione è troppo bassa. Al netto dei tecnicismi, è come chiedere a un fedele perché ha ucciso la vacca sacra e sentirsi rispondere che aveva fame. È una risposta semplice e pratica, ma anche una coltellata al cuore teologico dell’ideologia tedesca. Con queste premesse il Qe diventa possibile e perfino probabile, si tratterà solo di valutarne politicamente i tempi e i modi. La banca centrale guida, la Fed, sta del resto facendo capire in tutti i modi possibili che continuerà a cercare qualsiasi pretesto per mantenersi espansiva e, se possibile, diventarlo ancora di più. I paletti per cambiare politica vengono spostati in avanti di continuo. Una volta raggiunto un obiettivo se ne inventa un altro. Prima si doveva fare scendere il numero di disoccupati, poi fare salire il tasso di partecipazione al mercato del lavoro, adesso si vuole che crescano le retribuzioni, domani si farà il targeting del Pil nominale. 

L’effetto di questo mutato atteggiamento è molto positivo per le borse, almeno nel breve-medio periodo. Per i bond, invece, le cose si complicano. In un ciclo economico positivo tradizionale i bond scendono di prezzo due volte, una perché salgono i tassi nominali, l’altra perché salgono i tassi reali. Questa volta è possibile che salgano i tassi nominali e che allo stesso tempo scendano quelli reali, diventando negativi. L’impoverimento, per gli obbligazionisti, sarà meno percepibile, ma ci sarà lo stesso e non sarà necessariamente modesto. Non sarà molto visibile quando si guarderà all’estratto conto trimestrale, perché i prezzi dei bond scenderanno poco, ma lo sarà quando si proverà a fare la spesa al supermercato pagando in obbligazioni. C’è però un problema. I banchieri centrali sono sempre più elastici mentalmente, ma lo stato patrimoniale delle banche centrali che gestiscono è sempre più grande (non è il caso della Bce, che con le misure di oggi ripristina, nemmeno completamente, il livello del suo attivo del 2010). Il rischio di inflazione improvvisa, a un certo punto del futuro, rimane. Questo rischio, inizialmente, potrebbe essere gradito dai policy-maker (smaltirebbe una parte del debito pubblico in paesi come il nostro) ma diventerebbe presto difficile da gestire senza alzare bruscamente i tassi. Tutto sarà facile, anche per chi investe, per questo e forse per il prossimo anno. Poi diventerà progressivamente più difficile. I bond produrranno ritorni reali negativi, le borse produrranno una volatilità elevata.

Anche il ciclo economico, da un certo punto in avanti, diventerà più irregolare e se si sbaglierà qualche manovra ci saranno conseguenze. L’euro nei prossimi mesi sarà più debole, ma non di molto. I mercati, e dietro di loro l’America, continueranno a premere per un Qe europeo in piena regola. Solo allora accetteranno davvero un euro a 1.30. Le borse hanno iniziato la fase di vendita sulla notizia con l’idea che fino alla fine dell’anno, in Europa, non avremo altre sorprese. Chi aveva comprato in attesa di Draghi ora può vendere qualcosa. Chi non l’ha fatto farà bene ad approfittare di eventuali fasi di debolezza, con l’avvertenza che, se verranno, non saranno né lunghe né profonde. 

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