La lettera arrivata alla Commissione europea con stampigliato il 30 per cento di dazi aggiuntivi sulle esportazioni europee negli Usa ha oggettivamente sorpreso, ma non ha spiazzato nessuno visto che in soli sei mesi Donald Trump ha abituato il suo palcoscenico globale a prese di posizioni spettacolari quanto stravaganti. Certamente gli osservatori si aspettavano – e forse si aspettano ancora – un livello di dazi decisamente più basso, vicino a quel 10 per cento che di fatto sarebbe stato assorbito un po’ dagli esportatori europei e un po’ dai compratori e consumatori americani. Invece, almeno per il momento, Donald Trump sembra battere forte sulla teoria secondo la quale gli “amici” (europei) per decenni hanno spennato l’inconsapevole mercato americano e adesso devono pagare come previsto per i “nemici” (il resto del mondo o quasi).
Ma la trattativa sui dazi potrebbe nascondere altri elementi di negoziazione ancora più complessi da trattare per l’Europa, come spiega l’economista Lorenzo Codogno, visiting professor alla London School of Economics e al College of Europe a Bruges, oltre che fondatore e della società di consulenza LC Macro Advisors Ltd. In passato è stato dirigente generale al Dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia e delle Finanze.
Professor Codogno, l’Europa sta valutando le reazioni da approntare rispetto ai contenuti della lettera. Pur conoscendo la strategia erratica di Trump, quel 30 per cento aggiuntivo possiamo considerarlo l’approdo finale?
“Ho forti dubbi che questa lettera sia la conclusione della trattativa, ma potrebbe finire anche peggio. Da un lato Donald Trump ha dimostrato di essere fortemente interessato ad aumentare le entrate fiscali, quindi, terrà sicuramente il punto per mantenere un livello dei dazi elevati, ma vedo sul tavolo negoziale altri rischi. Per esempio, Trump potrebbe introdurre nelle trattative altre variabili: ordinativi per forniture militari o ulteriori pressioni per ridurre la tassazione dei giganti del web americani o anche peggio, vedasi le richieste alla Colombia o al Brasile”.
Potrebbe essere dunque ancora più svantaggiosa la trattativa per l’Unione?
“A dire il vero queste possibili nuove pretese da parte di Trump mi preoccupano di più dei dazi. Infatti, i dazi si scaricheranno prevalentemente sui consumatori statunitensi”.
Di fronte ad un livello dei dazi così elevato, e a possibili escalation nelle negoziazioni tra Bruxelles e Washington, l’Unione europea che contromisure potrebbe mettere in atto?
“Le dico prima di tutto quello che non dovrebbero assolutamente fare i governi nazionali: sussidiare le imprese colpite dal calo dell’export verso gli Usa. Sarebbe di fatto un trasferimento di risorse dai bilanci nazionali europei verso quello statunitense. Una vera e propria follia. Gli esportatori europei non dovrebbero giocare, a loro volta, la partita sulla riduzione dei loro margini, che comunque non sarebbero probabilmente così ampi nei vari settori da colmare dazi così alti. E soprattutto l’Europa deve assolutamente evitare trattative collaterali, sia che si tratti di import di materiale militare che negoziazioni fiscali sui giganti del web”.
Dal punto di vista tattico, meglio una contro-reazione decisa o un riposizionamento prudente in attesa di nuove evoluzioni?
“Una risposta contenuta è quella migliore: sono più utili in questa fase misure mirate, settoriali, anche allo scopo di favorire una de-escalation dell’intensità dello scontro negoziale. La Commissione europea ha a disposizione tutti i dati per colpire alcuni settori con tariffe granulari, dove più alta sarebbe la probabilità di sostituire le importazioni dagli Stati Uniti con produzioni europee”.
Il rischio, molto temuto negli ambienti della Commissione, è che l’Amministrazione Trump possa però spingersi oltre il 30 per cento su alcuni settori industriali strategici?
“Mi sembra pazzesco, ma è possibile soprattutto in settori cruciali come quello farmaceutico e dei microchips. Uno studio della Fed di New York ha dimostrato che il tasso di sostituzione dell’import europeo negli Usa non supera il 10 per cento: fatta 100 l’importazione di merci dall’Unione, solo 10 verrebbero rimpiazzate dalla produzione domestica americana. Inoltre, i nuovi investimenti produttivi negli Usa non avranno impatto sulla capacità industriale prima di 3-5 anni. Poi c’è il tema del mercato del lavoro: bisogna trovare nuova forza lavoro da impiegare, cosa assolutamente non semplice. Il mercato Usa è già molto teso e sono in corso, come è noto, operazioni per rimandare nel loro paese d’origine gli immigrati irregolari. L’aumento delle tariffe riporterà solo in piccola parte la produzione manifatturiera negli Usa ma allo stesso tempo si rifletterà in prezzi più alti per l’economia statunitense».
Se il punto di arrivo sarà effettivamente il 30% aggiuntivo sulle esportazioni europee, che impatto ci sarà per la crescita del Pil per l’Unione nel breve termine, da qui a fine anno?
“L’impatto per l’Europa potrebbe essere significativo, nell’ordine dello 0,2-0,3 punti percentuali di mancata crescita nel medio periodo, con percentuali più elevate nel breve. I minori volumi di export verso gli Usa non saranno facilmente assorbiti da altri mercati. Nel medio lungo periodo, per gli Stati Uniti il danno potrebbe essere molto più elevato. Secondo alcune stime anche mezzo punto percentuale di Pil, ma potrebbe essere anche di più perché gli effetti non saranno lineari”.
Per l’export e per l’economia italiana invece?
“L’Italia è, dopo la Germania, il secondo esportatore europeo negli Usa. L’impatto per l’economia italiana nel breve periodo potrebbe essere un po’ più alto che per il resto dell’Europa. Da tenere conto che mediamente i nuovi dazi di Trump per altre aree del mondo sono nell’ordine di grandezza di quelli applicati all’Europa. Quindi, non vi sarebbero svantaggi competitivi rispetto ad altre aree del mondo, e poche possibilità per gli importatori americani di sostituire le importazioni con produzioni nazionali. Perché, come detto, la produzione domestica sostitutiva non sarà in grado di far fronte a tutta la domanda oggi coperta dalle importazioni. Dunque, i costi saranno più elevati per i consumatori statunitensi e vi sarà un calo di domanda, ma l’Italia non avrebbe svantaggi competitivi rispetto ad altri paesi”.
Fino a dove e in che settori l’elasticità della domanda, e la compressione dei margini per esportatori e importatori, potrebbe limitare l’effetto dei dazi?
“Sposterei l’attenzione sull’economia americana. Una minore offerta di lavoro, stante le politiche anti immigrazione in corso, potrebbe tradursi in tensioni significative sui salari e avere effetti anche sull’occupazione. I redditi medio bassi saranno, inoltre, i più colpiti dagli effetti regressivi delle novità fiscali e in materia di assistenza sanitaria, oltre a pagare prezzi al consumo più alti. In questo scenario è destinata a diminuire la domanda interna statunitense, con effetti sulla crescita del Pil sino ad 1% nel breve e del -0,4/0,5% nel lungo periodo. È questo che vuole Trump? Siamo di fronte ad un gigantesco boomerang che si ripercuoterà su chi lo ha lanciato”.
Si fa presto a dire però: sostituiamo l’export verso gli Usa con altri mercati. Ma in che direzione? E in che tempistiche?
“L’importante è tenere aperti i mercati internazionali, con un’Unione Europea che conferma la validità e il rispetto delle regole del Wto. Se questo avverrà si porranno le basi per un aumento dell’interscambio commerciale globale, in grado almeno parzialmente di compensare la chiusura con gli Stati Uniti imposta da Trump”.
Fine del libero scambio, ruolo del dollaro come moneta di riserva, il multilaterismo in soffitta. Secondo lei, davvero gli Usa di Trump sono disposti a demolire il vecchio ordine internazionale senza portarsi dietro l’Europa?
“Sembra di sì, altrimenti non si spiegherebbe questo comportamento. È una scelta suicida quella che Trump sta imponendo agli Usa, che sono stati il maggior beneficiario, in termini economici e di potenza globale, dell’era del libero scambio e della riduzione dei dazi. Trump e la sua Amministrazione provocheranno conseguenze negative per l’economia americana nel lungo termine allo scopo di procurarsi un po’ di quattrini dai dazi da usare per politiche di bilancio di breve termine. Ma si tratta di una illusione di cui presto si vedranno gli effetti”.
Fino a che punto i mercati finanziari sono preparati ad incorporare l’incertezza economica propagata dal Trump II?
“Questo è un punto fondamentale. È difficile fare previsioni ma l’effetto dell’incertezza sulle decisioni di spesa e di investimento sono già presenti. Al momento i mercati finanziari pensano che una parte di questa incertezza sia già stata scontata e che l’economia Usa è ancora in buona salute. C’è anche un po’ di effetto ‘Taco Trump’ (Trump always chickens out), il fatto che Trump fa sempre marcia indietro, ma non è detto che vada a finire così questa volta”.
In che senso?
“I mercati pensano probabilmente che gli Usa possano alla fine ridimensionare i dazi. Oppure pensano che ci possano essere altri vantaggi per l’economia americana, come ad esempio maggiori acquisti di materiale bellico per sostenere il riarmo europeo o altre misure vessatorie per tentare di scaricare i costi di ristrutturazione dell’economia statunitense su altri paesi. E forse scontano che nel frattempo Trump possa ridurre le tasse e deregolamentare l’economia Usa. Ma a mio avviso il rischio è di un brusco risveglio, con la scoperta che gli effetti negativi di queste politiche non cooperative porteranno al disastro”.