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Fabbrica futuro: il caso Fiat-Fca come non è mai stato raccontato

Esce in libreria il 7 novembre il libro di Marco Bentivogli e Diodato Pirone. Un’inchiesta sul campo che sgretola molti falsi miti e che analizza il caso Fiat alla vigilia delle nozze con Peugeot e a partire dal miracolo di Pomigliano

Fabbrica futuro: il caso Fiat-Fca come non è mai stato raccontato

Proprio ora che la fusione alla pari tra Fca e Psa sta per generare un nuovo colosso mondiale dell’auto, esce Fabbrica futuro, il libro scritto da Marco Bentivogli, segretario generale di Fim Cisl, e Diodato Pirone, giornalista del Messaggero, grande esperto di politica industriale. Il libro – editore Egea (Bocconi) – uscirà il 7 novembre e FIRSTonline pubblica qui di seguito un’anticipazione utile a comprendere il caso Fca in un momento strategico per la sua crescita, a partire dal miracolo di Pomigliano.

Fabbrica futuro è infatti il primo libro a raccontare il caso Fiat-Fca e lo fa dal punto di vista del lavoro in fabbrica. Si tratta di un viaggio nelle fabbriche moderne, crocevia della grande trasformazione del lavoro e delle produzioni, fabbriche dove contrariamente alla vulgata comune diminuisce la fatica ma aumenta lo stress degli operai 4.0 chiamati a lavorare non più solo con le mani ma anche con il cervello. Una rivoluzione tecnologica e culturale, frutto di una nuova visione dell’azienda e del coraggio di una parte del sindacato, grazie alla quale oggi Fca si fonde alla pari con Psa e anzi, in alcuni settori, la sopravvanza. Ecco il capitolo sulla trasformazione di Pomigliano.

Messaggio sviluppista dalla fabbrica sgarrupata

Non gli risparmiarono nulla, quel giorno, a Sergio Marchionne. Era il 13 dicembre del 2011, Santa Lucia. Con una conferenza stampa in fabbrica, veniva riaperto lo stabilimento di Pomigliano dal quale non usciva uno spillo dalla fine del 2007. Fu uno spartiacque, quel giorno. Segnò la nascita della nuova Mirafiori italiana. Fiat tornava a parlare al Paese da una fabbrica. Come aveva fatto nel 1923 con l’architettura rivoluzionaria del Lingotto, nel ’39 con la sterminata Mirafiori destinata a fare il miracolo economico, nel ’72 inaugurando sei stabilimenti nel Sud per fermare l’emigrazione e nel ’93 con la «fabbrica integrata» di Melfi che doveva rispondere all’invasione giapponese e allo strapotere tedesco. Quel 13 dicembre, lontano dai filari di macchinari di Pomigliano ancora odorosi di nuovo, lo spread volava a quota 575, la recessione mordeva, i giornali erano un puzzle di tagli e di tasse. Ma quel giorno Marchionne intendeva lanciare un messaggio sviluppista dal cuore del Sud più sgarrupato. «Guardatevi attorno», disse a un paio di centinaia di giornalisti nel mezzo di una sala che si affacciava sulle linee di montaggio. «La Fiat troverà il capitale per fare autovetture senza aiuti dallo Stato ma non vogliamo ostacoli alla produzione.» Non convinse nessuno. La domanda di una giornalista di France Presse fu una rasoiata: «Ha ripreso al lavoro pochi operai della vecchia fabbrica, non si sente un traditore?». La replica non fu all’altezza: «Prenderemo quelli che serviranno ». Sipario.

La reporter transalpina non poteva sapere che, seduto sullo sgabello di fianco a quello di Sergio Marchionne, c’era un brillante e altissimo ingegnere tedesco-brasiliano, Stefan Ketter, allora capo del manufacturing, ovvero di tutte le fabbriche Fiat. Un paio di anni prima fra lui e Marchionne si era svolto qualcosa di molto simile a un braccio di ferro. Marchionne voleva tenere aperto lo stabilimento di Pomigliano a costo di riportare in patria dalla Polonia quel gioiellino della Panda. La squadra di Ketter, ma anche buona parte del gruppo dirigente del Lingotto, era molto perplessa.

All’epoca, a Pomigliano era ancora viva la maledizione Alfasud (era il nome dello stabilimento al momento della sua fondazione da parte dell’Alfa Romeo statale, alla fine degli anni Sessanta) che significava microscioperi, assenteismo, qualità modesta. Insomma, un posto dove si lavorava male. Circolavano mille leggende metropolitane come quella della dozzina di cani randagi, sfamati dagli operai, che giravano nei capannoni, verniciatura compresa, ovvero in un luogo dove non dovrebbe volare neanche un capello. Qualcuno sosteneva che la gente della fabbrica era abituata a mangiare lungo le linee di montaggio, il che finiva per attirare qualche topo. Inoltre, le condizioni della mensa e degli spogliatoi lasciavano a desiderare e a ogni cambio turno pioveva un diluvio di urla e lamentele. Nel 2007 comunque, ultimo anno durante il quale la fabbrica aveva trottato, si erano verificati ben 150 episodi di microconflittualità, spesso per motivi futili. Un posto abbandonato da Dio e dagli uomini.

Marchionne, per rimettere in piedi la baracca, nel quadro dell’unica operazione europea di rientro in Occidente dall’Est di un prodotto automobilistico, assegnò a Ketter un bel gruzzolo di milioni (ne furono investiti 800 in tutto, compresa la progettazione della vettura) per ricostruirla dalle fondamenta e carta bianca su personale e dirigenti, impiegati compresi. Nel piano originale era previsto un solo modo per non bruciare quella montagna di soldi: produrre Panda a manetta. Cioè per sei giorni, sabato compreso, e H24. Un pezzo ogni minuto, anzi meno, giorno e notte, più o meno sull’onda dei ritmi già raggiunti in Polonia. In sintesi, si trattava di costruire un piano credibile di rientro di produzione (back reshoring, in gergo) dall’estero partendo da un dato scioccante: il salario degli operai polacchi dello stabilimento di Tychy all’epoca era di poco superiore ai 400 euro al mese.

Ketter fece due cose per trasformare il ranocchio in un principe. La prima fu quella di imbottire la fabbrica di robot dando vita a un reparto lastratura spettacolare dove tutt’oggi campeggia la cosiddetta «cattedrale», ovvero un maxi-groviglio di robot concentrati in pochissimi metri, le cui proboscidi arancioni operano tutte assieme come un gruppo di ballerini affiatati. Lo spettacolo si svolge nella penombra, perché le luci sono spente per risparmiare energia, ma di spettacolo trattasi: in un nanosecondo i robot si intrufolano nella scocca come dita di un chirurgo, si allungano, si girano, saldano le lamiere fra il fragore delle scintille e poi si risollevano nell’ordine nervoso disegnato da un grande coreografo.

La seconda novità fu ancora più innovativa perché riguardava gli uomini: rompere le gerarchie all’interno dello stabilimento e ripensare il modo di lavorare fino a riscrivere lo stesso rapporto fra operai e Fiat. Su questo nodo si scatenò una battaglia politico-sindacale gigantesca, combattuta – a leggere i giornali – soprattutto su tagli alle pause e penalizzazioni sull’assenteismo. Ma il vero valore aggiunto del contratto scritto ad hoc per Pomigliano (che si rivelò poi il punto di partenza per l’addio di Fiat alla Confindustria) fu un altro: Marchionne chiese ai sindacati di impedire i microscioperi, accettando multe se i loro delegati li avessero indetti a freddo, cioè senza attivare un confronto con l’azienda. Fim-Cisl, Uilm-Uil e Fismic accettarono. La Fiom no. Ne nacque una guerra termonucleare che oscurò ciò che accadde davvero.

A Pomigliano, furono introdotte in modo scientifico, per la prima volta in una fabbrica Fiat, cinque novità che – attraverso l’applicazione del sistema operativo World Class Manufacturing (Wcm) – ora sono regola in tutti gli stabilimenti FCA dagli Usa alla Cina e che andiamo a conoscere nei dettagli.

La prima: un’organizzazione del lavoro basata su squadre di sette operai, coordinate (attenzione, coordinate, non comandate) da un operaio team leader con pieni poteri sulla sua stazione di montaggio. Traduzione: da allora nelle fabbriche italiane di FCA circa 1500 operai non lavorano con le mani ma con la testa e gli altri operai FCA non dipendono più direttamente da un lontano dirigente ma da un collega con il quale magari la domenica vanno allo stadio. Nasce così la figura dell’operaio che incorpora anche funzioni intellettive e il modello organizzativo della fabbrica piatta. E solo chi ricorda il regime di «religione della gerarchia» che vigeva nella vecchia Fiat può percepire l’epocalità del passaggio. Seconda novità: l’ergonomia. Tutti i movimenti degli operai furono (e continuano a essere) studiati per evitare o spezzettare mansioni faticose, velocizzando la linea.

Terza rottura: prima gli operai dovevano solo eseguire. Da quel dicembre 2011 si chiede loro di proporre soluzioni per migliorare la produttività. Quarta: fu chiusa la palazzina degli uffici e le scrivanie degli impiegati furono collocate lungo le linee di montaggio dalle quali restano tutt’oggi separate solo da un cristallo. Nacque il cosiddetto «acquario». Quinta: dal direttore di fabbrica all’ultimo assunto tutti indossarono la stessa identica tuta con l’obiettivo di fare squadra.

Risultato? Una Panda ogni 55 secondi e assenteismo medio all’1,7%. Un gioiello di efficienza sotto il Vesuvio, in un’area fra le più problematiche d’Italia. In quel giorno di Santa Lucia tutto questo era impensabile. Oggi, invece, la fabbrica di Pomigliano è talmente consolidata nel suo ruolo di capitale del lavoro FCA che squadre dei suoi tecnici sono chiamate per dare una mano in altre fabbriche. Recentemente è accaduto a Sterling Heights, a poche miglia dal centro di Detroit, nel gigantesco plant dei pick-up Ram da 2,5 tonnellate, per accompagnare gli americani nel raggiungimento dell’incredibile obiettivo di assemblarne uno ogni 45 secondi. Qualche tempo fa qui è venuta una nutrita delegazione della Volkswagen a studiarne «il caso». C’erano i responsabili della produzione della piccola Up! e della gigantesca Q7, accompagnati da alcuni capi unità, da un responsabile dell’analisi del lavoro, da un direttore di stabilimento e persino da un responsabile della metodologia di lavoro. I tedeschi a Napoli per studiare il lavoro!

Tuttavia, Sergio Marchionne non trovò mai le parole giuste per spiegare la rivoluzione di Pomigliano. Anni dopo, nella colonna sonora di uno di quegli spot televisivi che lasciano il segno, affidata al rapper Victor, infilò una frase che oggi può suonare come la sua risposta alla giornalista di France Presse: «I’m the gamechanger / And I walk with danger / I don’t need a flag to be revolutionary».

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