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Diritti: Ius Soli, un tema da affrontare a livello europeo

Il dibattito sullo Ius Soli è stato introdotto in modo maldestro, rischiando di trasformarlo in capro espiatorio per le aspre divisioni politiche interne all’esecutivo Letta – Il tema andrebbe affrontato a livello europeo, partendo da un dibattito onesto e basato sulla conoscenza dei fatti – Il caso americano può servire a chiarire alcuni punti controversi.

Diritti: Ius Soli, un tema da affrontare a livello europeo

Lanciare nell’arena politica il tema dello ius soli, come ha fatto il ministro Kyenge solo una settimana dopo la fiducia a Letta, promettendo il varo di un ddl nell’arco di quindici giorni, è stata una scelta strategicamente zoppa. La tempistica sconsigliava di mettere sul tavolo un tema così delicato, percepito come una rivendicazione della sinistra, senza tra l’altro cercare la collaborazione di tutte le forze politiche. Il centro-destra ha così avuto gioco facile nel condannare l’autoreferenzialità del Pd; Grillo ha invocato, come al solito, il referendum, e il risultato è che il dibattito sulla cittadinanza è stato svuotato di contenuti e riempito di demagogia.

Il tema, poi, andrebbe forse affrontato prioritariamente a livello europeo, ma con le elezioni in Germania alle porte, i populisti euroscettici che galoppano in Inghilterra e una generalizzata sfiducia nelle politiche economiche imposte da Bruxelles, i problemi generati dai flussi migratori rischiano di diventare carne da macello in un contesto politico sfavorevole. Il terreno va preparato sia a livello interno che estero, per non “bruciare” la possibilità di riformare la legislazione nazionale e comunitaria in materia.

Per fare ciò bisogna prima di tutto sfrondare alcuni miti che imperversano quando si parla di aprire le frontiere e allentare le regole per l’acquisizione della cittadinanza. Già il deputato Ignazio La Russa, nei giorni scorsi, ha paventato il rischio che adottare lo ius soli comporterebbe per il welfare italiano: l’ex pidiellino teme che migliaia di gestanti straniere provenienti da paesi poveri sarebbero indotte a partorire in Italia per garantire in automatico, ai propri figli, la cittadinanza e con essa il diritto a godere del welfare nostrano. Senza però contribuire a mantenerlo. E’ quella che alcuni definiscono come “welfare immigration”.

Detta così, l’obiezione di La Russa non sembra irragionevole. Anche il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha precisato che non si tratterebbe di applicare uno ius soli puro, ipotesi poi confermata dalla stessa Kyenge.

Ma qualcosa, in merito ai rischi impliciti nel concedere la “cittadinanza facile”, si può dire. Prendendo come esempio il caso americano, con tutti i dovuti distinguo, si può fare qualche annotazione.

La cosiddetta “welfare immigration”, innanzitutto, negli Stati Uniti non rappresenta un problema contabile per le finanze pubbliche. E’ vero, in termini di valore attuale netto, il tipico immigrato, lavoratore scarsamente qualificato, consuma più di quanto paga, rappresentando un costo netto per il governo, soprattutto a livello locale e statale, ma sono costi di breve periodo che nel lungo periodo vengono compensati dai benefici che l’immigrazione garantisce.

Il tipico immigrato inoltre non arriva per sfruttare le risorse pubbliche, ma per cercare occupazione: negli Usa, un campione analizzato nel 2010 mostrava addirittura tassi di partecipazione alla forza lavoro più alti tra i nuovi arrivati (67,8%) che tra i nativi (64,1%).
C’è poi una curiosità: gli ispanici spesso emigrano verso gli stati americani che offrono meno servizi. Ciò contrasta con la teoria della welfare immigration, e può essere dovuto al fatto che, senza permesso di soggiorno, l’assistenza sarebbe comunque preclusa al “transborder”, e che molti lavoratori scarsamente qualificati non sono tipicamente attratti da grandi centri come New York, la California, l’Illinois, dove si concentra manodopera altamente qualificata e ad alto valore aggiunto.

Sappiamo comunque che gli immigrati un costo, in termini di risorse pubbliche, lo comportano. Ma si tratta di un costo o di un vantaggio netto? La domanda è complicata e si presta a strumentalizzazioni ideologiche. Rispondervi vuol dire analizzare un fenomeno multigenerazionale, ed in questa parola è nascosto l’architrave di tutta la diatriba.

Come tutti gli esseri umani infatti, i migranti proliferano. Nei primi anni di vita, i loro figli generano costi soprattutto a livello scolastico. Negli Stati Uniti, possono iscriversi a scuola anche se i genitori non hanno il permesso di soggiorno. Quando crescono, entrano nel mondo del lavoro e pagano le tasse, mantengono i genitori anziani se questi ultimi non hanno collezionato benefit sufficienti.

Gli studi più recenti mostrano che l’impatto fiscale medio degli immigrati è positivo, in parte perchè spesso arrivano in giovane età, in parte perchè i loro discendenti tendono ad essere maggiormente qualificati e a guadagnare di più, e pagano le tasse per alcuni servizi per i quali, di riflesso, non comportano dei costi (come la difesa e il pagamento degli interessi sul debito pubblico). Inoltre, contribuiscono a sostenere i costi crescenti comportati dall’avvio al pensionamento della generazione dei baby boomers, mantentendo in equilibrio i conti previdenziali. In moneta sonante, è stato calcolato che un immigrato e i suoi discendenti rappresenta un introito medio netto, per le casse americane, di circa 80mila dollari. La differenza lampante tra il caso americano e quello italiano è che il lavoro extracomunitario, da noi, è quasi sempre in nero, comportando probabilmente costi e non vantaggi per il fisco. E’ quello che accade quando non si impara a valorizzare una risorsa, che se mal gestita può diventare un aggravio economico oltre che sociale.

I bambini degli immigrati, quindi, rappresentano un vero e proprio investimento: vengono educati meglio dei loro genitori, crescendo contribuiscono a finanziare la spesa pubblica alla pari di tutti gli altri. Negli Usa il loro arrivo non ha comportato un aumento della spesa per l’istruzione. Anzi, ha appena compensato il declino della natalità contribuendo a mantenere dinamico il mercato del lavoro.

Quanto detto è valido a livello nazionale, ma nei diversi stati della federazione ci sono, a livello di finanza locale, disparità e asimmetrie che danno impulso a correnti contrastanti nell’opinione pubblica. Se ciò è vero per gli Stati Uniti, tanto più lo è per l’Europa: le leggi in materia sono disomogenee tra i diversi paesi, e manca una politica europea per l’immigrazione. Basti ricordare la pessima gestione dell’emergenza libica, allorchè i paesi mediterranei (e l’Italia in primis), sono stati lasciati soli nel fronteggiare la crisi.

Il terreno è delicato e, nel mondo globalizzato, la gestione dei flussi frontalieri sarà un tema sempre più ingombrante. Come pensare che non debba essere affrontato a livello europeo? Una politica comune per l’immigrazione vuol dire anche stanziamenti e solidarietà tra i paesi dell’Unione, solidarietà che è stata invocata, probabilmente inopportunamente, da paesi non molto credibili politicamente, quando chiedevano mettere in comune quote del debito pubblico o di emettere titoli garantiti a livello comunitario. Oggi non si parla più di Eurobond, ma rivendicare una politica europea per l’immigrazione non significa batter cassa senza assicurare di aver fatto i “compiti a casa”.

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