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Dimissioni Pdl, il voto non è automatico

La macabra sceneggiata delle dimissioni multiple e a catena degli eletti del Pdl avrà effetti politici e istituzionali dirompenti, ma non necessariamente alla fine della Legislatura.

Dimissioni Pdl, il voto non è automatico

Prima di tutto i fatti: la stragrande maggioranza dei parlamentari eletti con il Pdl hanno firmato una lettera di dimissioni, secondo lo schema di un apposito modulo, affidandola ai propri capigruppo Renato Schifani e Renato Brunetta. Si tratta, quindi, di dimissioni per il momento congelate per volontà degli stessi dimissionari. Si avvierebbe un percorso per renderle operative soltanto dopo che la Giunta per le elezioni del Senato avrà votato la decadenza di Berlusconi, secondo quanto previsto dalla legge Severino in conseguenza della condanna definitiva del capo del Pdl.

Facciamo allora l’ipotesi che la Giunta voti, il 4 ottobre probabilmente, la decadenza di Berlusconi, la domanda è: le dimissioni saranno automaticamente operative? Certamente no. Prima di tutto le dimissioni per il nostro ordinamento sono nella disponibilità dei singoli parlamentari e non dei capigruppo. Andranno quindi prima presentate e poi discusse e votate singolarmente, prima in Giunta e poi in aula. Questo richiederà del tempo, se si considera che per prassi almeno la prima volta le assemblee parlamentari hanno sempre respinto le dimissioni di un loro collega. 

Una volta che le dimissioni siano accettate poi al parlamentare decaduto subentrerà il primo dei non eletti e via dicendo. Si aprirebbe così (almeno in teoria) una lunga successione di dimissioni a catena, bloccando per mesi i lavori parlamentari ed impedendo quindi alle Camere di occuparsi dell’eventualità di governo. Né è un caso che nel comunicato del presidente della Repubblica di giovedì scorso sia detto a chiare lettere che l'”inquietante” iniziativa del Pdl “configurerebbe infatti l’intento o produrrebbe l’effetto di colpire alla radice la funzionalità delle Camere”.

E qui forse si coglie meglio il perché di un’iniziativa che, purtroppo, solo a prima vista appare, farsesca. Il Pdl se avesse voluto provocare la crisi di governo poteva semplicemente invitare i suoi ministri alle dimissioni. A quel punto Letta non avrebbe potuto far altro che dimettersi rimettendo la questione nelle mani di Napolitano. Invece no: i ministri restano, i deputati e i senatori si dimetteranno. Insomma, il Pdl non punta alla crisi, ma alla paralisi del governo e delle altre istituzioni. 

Per questo, con la macabra sceneggiata, delle dimissioni congelate attacca direttamente il cuore del luogo delle decisioni politiche: il Parlamento. La cui attività viene di fatto paralizzata e impedita, con l’arma delle dimissioni multiple a successivamente a catena. E, come spiega sempre la nota del Quirinale, ci potrebbe essere “il proposito di compiere tale gesto al fine di esercitare un’estrema pressione sul capo dello Stato per il più ravvicinato scioglimento delle Camere”.

 Ma lo scioglimento delle Camere non sarebbe per nulla automatico anche se l’iniziativa del Pdl di paralizzare il Parlamento avrà gravi conseguenze politiche, una volta che alle dimissioni dei parlamentari seguissero quelle dei ministri del centro-destra o che Letta o il Pd volessero loro aprire la crisi di governo. A quel punto, come ha osservato il costituzionalista Massimo Luciani, “si aprirebbe il campo vastissimo delle possibilità di governo della crisi che il nostro sistema affida al capo dello Stato”. Ma resta il fatto che, giuridicamente, non ci sarebbe alcun automatismo tra le dimissioni dei parlamentari e la fine della legislatura.

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