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Crisi e banche: migliaia di licenziamenti in arrivo

La crisi finanziaria ha ridotto la redditività e i margini delle banche, in parte colpevoli di aver cavalcato irresponsabilmente l’onda della finanza creativa, ma anche afflitte da un deficit di produttività e innovazione tecnologica che le rendono, specialmente nel caso italiano, poco competitive in termini di costi interni rispetto alla concorrenza.

Crisi e banche: migliaia di licenziamenti in arrivo

Non si può certo negare che il mondo delle banche soffra fortemente la crisi finanziaria. Ma come al solito, per far tornare i conti nei bilanci degli istituti, disastrati da minusvalenze su crediti, asset incagliati, congelamento del mercato interbancario e riduzione della raccolta, i primi a rimetterci saranno i lavoratori, soggetti a programmi di ristrutturazione interna e rinnovamento dei piani industriali che porteranno, nel corso dei prossimi anni, a licenziare decine di migliaia di addetti.

La dimensione globale della crisi non perdona, e presto gli istituti dovranno mettere in campo soluzioni strategiche per il proprio futuro. A fronte di una redditività spesso in contrazione e margini in picchiata, limare i costi interni vuol dire prendere decisioni forti, andare allo scontro con i sindacati, mettere per strada intere famiglie. Si tratta, d’altra parte, del costo aggiuntivo da sostenere quando lo scoppio di una bolla finanziaria mette a nudo settori non più sostenibili del business.

Italia, Spagna, Svizzera, Stati Uniti sono le frontiere dei nuovi riassetti societari. E non passa settimana senza che nuovi colossi del credito lancino l’allarme licenziamenti. E’ di ieri il caso Citigroup, una delle più grandi banche universali, che per bocca del nuovo Ceo, Michael Corbat, ha annunciato un piano di esuberi di 11.000 dipendenti, tagli da apportare in “aree e prodotti che non garantiscono più ritorni significativi”.

Il caso Citigroup, come detto, non è il primo: in Spagna i dipendenti delle banche, in cambio dei 39,5 miliardi di euro concessi dall’Esm nel contesto del piano di ricapitalizzazione, hanno dovuto ingoiare una pillola assai amara: il colosso Bankia (una fusione tra sette istituti di credito), tra i primi ad annunciare il piano di ristrutturazione, ridurrà del 25% la forza lavoro, cancellando circa seimila contratti e il 39% delle branche produttive, con l’obiettivo di tornare alla profittabilità entro la fine del 2013.

Non scherza nemmeno la Svizzera, dove Ubs focalizzerà gli interventi soprattutto nel settore del wealth management, colpendo sostanzialmente il trading business, ormai considerato da tante banche un ramo secco. Ramo che, nel caso svizzero, ha accumulato perdite fino a 50 miliardi di dollari negli anni della crisi finanziaria. L’epurazione dei trader, a Berna, ha dell’incredibile soprattutto nella forma: parte dello staff è venuto a conoscenza del licenziamento solo al momento di passare il badge, disattivato, ai tornelli. Dirottati poi verso l’ufficio delle risorse umane, hanno ricevuto una borsa contenente gli effetti personali e una lettera, attestante due settimane di retribuzione dal momento del licenziamento. Così Ubs ha tagliato 10mila dipendenti, il 15% dello staff, dopo aver ridotto l’organico di altre ventimila unità a partire al 2008. 

Quanto all’Italia, il settore bancario del Belpaese assorbe occupazione totale per 325mila posti. Ma anche qui la mannaia dei licenziamenti si fa sempre più minacciosa, destando le proteste del Fabi – il sindacato di categoria -, allorchè si ritiene che ci siano esuberi per 25 o 35mila unità nell’intero settore, non colpevole – bisogna ammetterlo – di aver cavalcato l’onda facile della finanza creativa negli anni del boom, ma reo di portare il peso della scarsa innovazione e di una produttività in declino da tempo immemore.

Forte è la preoccupazione dei principali numeri uno del settore, che già guardano con timore alla scadenza del contratto in vigore che prevede, secondo un documento riservato dell’Abi, “aumenti tabellari assolutamente insostenibili”.

La natura della crisi bancaria, in Italia, non è quella dell’azzardo morale: il legame tra rischio sovrano e bilanci bancari si è aggravato man mano che gli istituti si imbottivano di Btp, per lucrare sugli alti rendimenti promessi dai titoli pubblici, in particolar modo dopo le aste di rifinanziamento straordinarie (Ltro) promosse da Mario Draghi tra la fine del 2011 e il febbraio 2012. Una strategia forse miope ma che ha evitato il tracollo del settore e ha, in parte, tenuto a galla i prezzi dei titoli pubblici.

Il rischio sovrano, oltre a ridurre il valore delle attività – poi contabilizzate al valore di mercato in rispetto della normativa comunitaria – ha ridotto la redditività e la fluidità del mercato interbancario, raggelando l’intera economia. Si tratta di una dinamica che rende insostenibile l’attuale assetto produttivo e improrogabile la riduzione degli organici, costringendo le banche nostrane a mettersi in pari sui processi produttivi, in particolare sul web, che spesso le vedono indietro rispetto alla concorrenza europea: la crescita del banking online richiede di adeguare i piani industriali svincolando la banca dalla presenza sul territorio, esternalizzando alcune branche e tenendo sotto controllo le dinamiche salariali.

C’è da chiedersi quando arriverà il momento in cui il management degli istituti vedrà la propria remunerazione realmente correlata ai risultati di lungo periodo. La letteratura che studia i processi di corporate governance, da questo punto di vista, è già ricca di contributi e indicazioni utili. Si tratterebbe solo di applicarle, per evitare che colossi del credito in crisi vengano salvati dalle tasche dei contribuenti, mentre i supermanager responsabili dei crack riscuotono bonus in stock options da milioni di dollari.

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