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Covid, se l’infermiere rifiuta il vaccino: il caso di Genova

Il caso dell’infermiera dell’ospedale San Martino di Genova che rifiuta di vaccinarsi e che risulta positiva con effetti contagiosi diventa un caso di scuola: che si fa in una situazioni del genere? Il licenziamento sembra inevitabile

Covid, se l’infermiere rifiuta il vaccino: il caso di Genova

Ecco come le agenzie hanno diffuso  la notizia:

‘’Un nuovo cluster di Coronavirus è stato registrato all’ospedale policlinico San Martino di Genova. A confermare l’individuazione di un cluster derivante da variante inglese al 1º piano del Padiglione Maragliano è stata la direzione dell’ospedale. Secondo quanto è stato comunicato, è risultata positiva anche un’infermiera che non aveva accettato di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid. Immediatamente al Policlinico è scattato il protocollo di sicurezza per individuare al più presto eventuali contagi tra i pazienti ricoverati. Le strutture complesse di Igiene diretta dal professor Icardi e di Malattie Infettive diretta dal professor Bassetti  hanno attivato di concerto con la direzione sanitaria tutte le procedure previste dal protocollo. Al momento le persone risultate positive al Covid-19 in ospedale sono dieci’’. 

Il fatto richiama alla memoria un dibattito svoltosi alcune settimane fa a proposito dell’obbligatorietà della vaccinazione (soprattutto per alcune categorie particolarmente esposte) e sulle conseguenze che il rifiuto della vaccinazione potrebbe determinare sul rapporto di lavoro, fino alla risoluzione per giustificato motivo. Ovviamente a Genova il nesso di causalità va accertato. Eppure, sembrerebbe prefigurarsi un vero e proprio caso di scuola, benchè nell’incertezza di un quadro legislativo e giurisprudenziale non definito.

L’Azienda ospedaliera, come tutti i datori di lavoro, è sottoposta al dispositivo di cui all’articolo 2087 del codice civile che recita:

‘’L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’’. 

Codice Civile, articolo 2087

Si tratta di una ‘’norma di chiusura’’ della tutela antinfortunistica, in quanto all’imprenditore,  per essere affrancato da responsabilità penale e civile, non basta limitarsi a rispettare le leggi vigenti in tema di sicurezza del lavoro.  L’orizzonte dell’articolo citato è quello della particolarità, dell’esperienza e della tecnica e delle indicazioni che ne derivano anche nel silenzio della legge. 

Sta in questa norma la chiave del problema da quando la legge ha ricondotto  la contrazione del virus sul posto di lavoro o in itinere alla fattispecie dell’infortunio (con la specificazione: da covid-19), non solo per il personale – come quello sanitario – che lavora a contatto con il virus, ma per chiunque possa dimostrare l’eziologia del contagio.

La causa violenta a base dell’infortunio (da Covid-19) avrebbe potuto mettere le aziende in una condizione di responsabilità oggettiva, se non si fosse chiarito, in un provvedimento successivo, che: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici (quindi anche un’azienda ospedaliera, ndr) e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

In sostanza il legislatore ha ritenuto necessario fornire una sorta di interpretazione autentica dell’applicazione dell’articolo 2087, proprio per le preoccupazioni espresse dal mondo dell’impresa e condivise, a suo tempo,  anche dal Piano Colao: “Il possibile riconoscimento quale infortunio sul lavoro del contagio da Covid-19, anche nei settori non sanitari, pone – era scritto – un problema di eventuale responsabilità penale del datore di lavoro che, in molti casi, si può trasformare in un freno per la ripresa delle attività. D’altro canto, per il lavoratore che è esposto al rischio di contagio per il tragitto che deve fare per andare al lavoro e per il permanere a lungo nel luogo di lavoro, magari a contatto con il pubblico, il trattamento del contagio quale infortunio garantisce un livello di tutela, per sè e i propri famigliari, ben maggiore del trattamento di semplice malattia. Si tratta quindi di individuare  – come poi è avvenuto, ndr –  una soluzione di compromesso che salvaguardi le due esigenze”.

A questo punto,  si può ricapitolare: il datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 citato, è tenuto ad adottare tutte le misure che, a prescindere da quanto è recepito e indicato dalla legge, possono tutelare la sicurezza del lavoratore; il contagio da Covid-19, se contratto in occasione di lavoro, è considerato infortunio, dalla cui responsabilità il datore si sottrae se  gli è riconosciuto di avere applicato correttamente quanto disposto nei Protocolli.

Nell’ambito delle misure di tutela è subentrata la disponibilità di vaccini, regolarmente testati dalle autorità competenti: una misura frutto della ‘’esperienza e della ‘’tecnica’’. Sorge allora un obbligo in capo al datore (pubblico o privato) per mettere in sicurezza i propri dipendenti. Quando nell’ambito del rapporto di lavoro una delle parti – nel nostro caso il prestatore – si sottrae ad un obbligo contrattuale mettendo a rischio la sua salute e quella dei suoi colleghi, al datore di lavoro – che è comunque responsabile della sicurezza  della comunità aziendale – non è consentito di cavarsela dicendo: ‘’Io la vaccinazione gliela volevo fare, ma lui si è rifiutato’’.

L’azione del dipendente non esonera il datore nel caso che dal contagio/infortunio derivi un danno grave o il decesso del dipendente stesso e di altri colleghi contagiati; ma il rifiuto gli impedisce di adempiere ad un obbligo corredato di sanzioni penali. Poi c’è il problema nei confronti di altri soggetti – i pazienti, ad esempio, o i loro parenti – che, se contagiati, possono accusare l’amministrazione di non aver provveduto a rimuovere una fonte di rischio di cui era consapevole (nel caso in esame l’infermiera si era sottratta notoriamente alla somministrazione del virus).

Nella vicenda di Genova, l’amministrazione dell’ospedale avrebbe dovuto quanto meno sospendere la dipendente. E’ opportuno quindi che le parti sociali si attivino ad aggiornare i loro benemeriti protocolli alla nuova disponibilità delle vaccinazioni, anche perché le aziende si accingono a divenire presidi per le somministrazioni.

In caso di rifiuto conclamato alla vaccinazione, non pare esservi una soluzione diversa dalla risoluzione del rapporto di lavoro da parte del datore.  Perché, a pensarci bene, non sembra possibile neppure il trasferimento ad altra mansione (in totale isolamento?) proprio per la natura stessa del contagio.

E’ necessario poi tenere conto delle statistiche che confermano l’esistenza di un problema serio: su 131mila denunce nel 2020, l’analisi per professione dell’infortunato evidenzia la categoria dei tecnici della salute come quella più coinvolta da contagi con il 38,7% delle denunce (in tre casi su quattro sono donne), l’82,2% delle quali relative a infermieri. Seguono gli operatori socio-sanitari con il 19,2% (l’80,9% sono donne), i medici con il 9,2% (il 48,0% sono donne), gli operatori socio-assistenziali con il 7,4% (l’85,1% donne) e il personale non qualificato nei servizi sanitari (ausiliario, portantino, barelliere) con il 4,7% (3 su 4 sono donne).

Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail nel 2020 sono state 1.270. Pur nella provvisorietà dei numeri, questo dato evidenzia un aumento di 181 casi rispetto ai 1.089 registrati nel 2019 (+16,6%). L’incremento è influenzato soprattutto dai decessi avvenuti e protocollati al 31 dicembre 2020 a causa dell’infezione da Covid-19 in ambito lavorativo, che rappresentano circa un terzo dei decessi denunciati all’Inail da inizio anno.

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