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Clinton, siamo proprio sicuri che non cambia niente?

Da “IL ROSSO E IL NERO” di ALESSANDRO FUGNOLI, strategist di Kairos – I mercati sembrano dare per scontato che, nel caso sempre più probabile di vittoria della Clinton alle prossime elezioni presidenziali americane di novembre, non cambierà nulla ma Hillary non è Bill ed è legittimo immaginare un’accelerazione del cambiamento e un’America più socialdemocratica – Per questo la Clinton meriterebbe un certo premio al rischio

Clinton, siamo proprio sicuri che non cambia niente?

La trias politica, la separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), fu teorizzata in forma compiuta da Montesquieu nell’Esprit des Lois del 1748. I Padri Fondatori ne fecero la base della Costituzione americana del 1787, sette articoli in tutto, di cui quattro dedicati proprio alla separazione dei poteri e tre ai rapporti tra federazione e stati.

Il principio dei pesi e contrappesi era in realtà già applicato in terra americana da più di un secolo. Faceva parte della tradizione calvinista ed era stato già adottato nella Ginevra riformata del XVI secolo. I calvinisti lo portarono nelle prime colonie della Nuova Inghilterra già nel 1628 insieme al modello bipartitico. L’Europa vi arrivò molto più tardi. La Francia lo adottò nella costituzione del 1791, ma già nel 1793 i giacobini tornarono al modello dello stato assoluto controllato di fatto non più dal monarca ma da un partito unico.

Come è noto il presidente degli Stati Uniti è eletto ogni quattro anni, il Congresso è rinnovato parzialmente ogni due mentre i giudici della Corte Suprema sono nominati a vita. Questo ha fatto sì, storicamente, che i tre poteri siano stati spesso controllati, in un dato momento, non da un partito solo ma in un regime di coabitazione tra democratici e repubblicani.

La coabitazione ha funzionato in genere abbastanza bene e ha impedito o attenuato gli eccessi che spesso si verificano quando un partito solo si trova a controllare tutte le istituzioni. I conflitti tra i poteri sono stati nel complesso fisiologici e le forzature sono state rare. La più grave è stata nella seconda metà degli anni Trenta, quando il democratico Roosevelt arrivò a un passo dal rovesciare d’autorità la maggioranza repubblicana della Corte Suprema che gli bloccava sistematicamente la legislazione del New Deal.

Negli ultimi decenni la coabitazione è stata più la regola che l’eccezione ed è stata particolarmente apprezzata dai mercati finanziari anche (e soprattutto) perché il potere di veto incrociato tra esecutivo e Congresso ha garantito la semiparalisi del processo legislativo e la conseguente salvaguardia dello status quo. L’eccezione è stata rappresentata dal primo mandato di Obama, quando i democratici si sono ritrovati a controllare anche entrambi i rami del Congresso. Forti di questo potere quasi assoluto, frenato talvolta dalla sola Corte Suprema, i democratici sono riusciti a fare passare l’Obamacare (che ha volutamente rappresentato una forte redistribuzione dei redditi) nonostante la tenace opposizione dei repubblicani, dei ceti medi e delle piccole imprese.

Nel secondo mandato Obama ha perso prima l’appoggio del senato e poi quello della camera, riconquistati dai repubblicani. La coabitazione ha prodotto risultati non disprezzabili sul piano della politica di bilancio. I mercati hanno gradito.

Per compensare la perdita del Congresso Obama ha però attuato due forzature evidenti rispetto alla prassi istituzionale consolidata. Da una parte ha allargato a dismisura il campo d’azione della decretazione presidenziale (gli executive orders), dall’altro ha politicizzato al massimo le agenzie, in particolare quella per la protezione dell’ambiente, incoraggiandole ad allargare il più possibile le loro competenze. Il Congresso ne è uscito vistosamente indebolito, forse per sempre, ma il potere esecutivo ha continuato comunque a trovare un limite nella Corte Suprema, che non ha esitato a cassare o moderare le iniziative più aggressive di Obama.

Nell’immaginare gli scenari successivi alle elezioni dell’8 novembre i mercati hanno pienamente sposato l’ipotesi di un prolungamento della coabitazione attuale, con Clinton al posto di Obama. Il previsto passaggio del senato ai democratici non cambierebbe troppo gli equilibri dal momento che i repubblicani che oggi controllano il senato sono quasi più simili ai democratici di centro che non ai repubblicani radicali della camera.

Lo scenario di coda, finora, è stato rappresentato da Trump, che in quanto incognita merita il premio per il rischio che i mercati assegnano d’ufficio alle novità (capitò anche a Reagan, che inizialmente fu accolto da una discesa della borsa) più un supplemento dovuto alla sua peculiare personalità.

I mercati, però, non stanno scontando un altro rischio di coda, quello di un en plein democratico che includa Casa Bianca, senato, camera e Corte Suprema. La guerra civile in corso tra i repubblicani sta infatti mettendo a rischio anche la roccaforte della camera proprio mentre la Corte Suprema si trova con una posizione vacante e con tre giudici tra i 77 e i 96 anni che potrebbero ritirarsi da un momento all’altro e che Hillary Clinton potrebbe sostituire con dei trentenni in grado di influenzare il corso della storia americana nel prossimo mezzo secolo.

È possibile quindi che l’America sia alla vigilia non di una pigra continuazione dello status quo, ma di un’accelerazione del cambiamento.

È legittimo ipotizzare un’America molto più socialdemocratica ed europea di quella che siamo abituati a conoscere. Chi ritiene che Hillary Clinton seguirà l’orientamento favorevole ai mercati del Bill Clinton degli anni Novanta dimentica che Hillary non è Bill, una reincarnazione brillante del classico democratico centrista del sud, ma una liberal che negli ultimi tempi, incalzata da Sanders, ha riscoperto anche sfumature progressive.

Si può immaginare, volendo, un 2017 in cui la senatrice Warren corona il suo sogno di fare a pezzi le banche di Wall Street, l’industria farmaceutica viene messa sotto sorveglianza stretta mentre il comparto petrolifero viene boicottato in ogni modo possibile. Si può ipotizzare un aumento della spesa pubblica finanziato da tasse che ritornano alle aliquote altissime degli anni Settanta e un clima di tensione internazionale con la Russia che porta a una nuova guerra fredda.

Così come si può d’altra parte constatare che Hillary Clinton ha mantenuto rapporti costruttivi con i repubblicani sia da senatrice sia da segretario di stato, che si avvarrebbe in economia della Brainard, della Yellen, di Summers e del collaudatissimo gruppo storico clintoniano e che alcune iniziative antibusiness potrebbero essere più di facciata che di sostanza.

I politici sono spesso duttili e sono quindi imprevedibili. Nixon passava per un guerrafondaio al tempo in cui fu eletto e finì con il ritiro dal Vietnam e con l’apertura alla Cina. Reagan in campagna elettorale passò per incapace e paranoico ma mise fine alla guerra fredda e oggi gli sono intitolati aeroporti e portaerei. Bush padre fu eletto con la promessa di non alzare le tasse ma le alzò e per punizione non venne più rieletto. Bush figlio fu eletto come uomo tranquillo e si ritrovò a fare guerre in Iraq e in Afghanistan. Obama fu eletto come unificatore dell’America e conclude il mandato con l’America più divisa da un secolo a questa parte.

Che cosà farà Hillary Clinton, quindi, non possiamo saperlo, ma proprio per questo pensiamo che i mercati non dovrebbero dare per scontato che non cambierà nulla nemmeno nel caso (per ora ancora probabile) che la camera rimanga repubblicana. Per questo si dovrebbe assegnare un certo premio per il rischio anche a Hillary Clinton. E per questo continuiamo a pensare che abbia senso continuare ad accumulare cash quando se ne presenta l’occasione, come in questo momento sul dollaro.

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