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Cina: Google si piega alla censura, ma i dipendenti non ci stanno

Dopo l’addio nel 2010, Big G vuole tornare nel Paese asiatico con una versione censurata del motore di ricerca che sarebbe una resa totale al regime di Pechino – Da 1.400 lavoratori di Mountain View arriva una lettera di protesta, ma in ballo c’è l’accesso al mercato col più alto tasso di crescita al mondo

Cina: Google si piega alla censura, ma i dipendenti non ci stanno

Google vuole tornare in Cina con una versione censurata del motore di ricerca, ma i dipendenti non ci stanno. Contro il progetto – battezzato Dragonfly, nome accattivante dietro cui si cela una sostanziale resa al regime di Pechino – circa 1.400 lavoratori di Big G hanno firmato una lettera di protesta, che è stata pubblicata in esclusiva dal New York Times.

Il tema pone “urgenti questioni morali ed etiche”, scrivono i dipendenti, lamentando di non avere “le informazioni necessarie a prendere decisioni” sul proprio lavoro. Nella lettera si richiamano i dirigenti a rivedere i criteri etici e di trasparenza delle politiche aziendali.

IL “GRANDE FIREWALL” CINESE

Nel marzo 2010 Google scelse di non piegarsi alla censura, reindirizzando il traffico dalla Cina verso il proprio sito di Hong Kong. La decisione arrivò dopo due mesi di braccio di ferro con Pechino seguiti a un attacco hacker contro l’azienda americana, con ogni probabilità orchestrato proprio dal regime, che puntava a rintracciare alcuni attivisti per i diritti umani.

D’altra parte, la censura del Dragone non colpisce solo Google. Il “Grande Firewall” cinese ferma ogni contenuto politicamente sgradito, perciò nella Repubblica Popolare è bloccato anche l’accesso a Twitter, Facebook e YouTube, oltre che a molti siti d’informazione (compreso quello del New York Times). In questo mercato a concorrenza zero hanno prosperato giganti locali come il motore di ricerca Baidu e il servizio di video hosting Youkou, che negli ultimi anni sono cresciuti indisturbati.

LE RICHIESTE DI PECHINO E IL SILENZIO DI GOOGLE

Oggi le autorità cinesi vedono con favore il ritorno di Big G, ma non intendono fare sconti sulla censura. Due settimane fa il Quotidiano del Popolo, organo del Partito Comunista Cinese, ha scritto che “Google è benvenuta, ma deve rispettare quanto previsto dalla legge”. Cioè deve oscurare i contenuti sgraditi a Pechino.

Lo stesso articolo del quotidiano di regime sottolinea che, durante l’assenza di Google, il numero di utenti cinesi online è più che raddoppiato, passando da 300 a 700 milioni. Si tratta del mercato con il tasso di crescita più alto al mondo e non sorprende che il colosso californiano voglia tornarci. Il punto è che la strategia scelta non è delle più trasparenti.

Stando a The Intercept, la testata online che ha rivelato il piano di Google, gran parte dei dipendenti del gruppo non ha accesso ai documenti relativi al progetto Dragonfly: “C’è un silenzio radio totale che rende la gente scontenta e spaventata”, racconta un dipendente.

IL PRECEDENTE DEL “PROGETTO MAVEN”

Non è la prima volta che Google si ritrova ad affrontare malumori interni. Qualche mese fa, in relazione a un contratto siglato con il Pentagono (il progetto Maven), migliaia di lavoratori del gruppo firmarono una petizione per chiedere di “restare fuori dal business della guerra”. Dopo questa protesta, lo scorso giugno il gigante informatico ha scelto di non rinnovare l’accordo, garantendo che i suoi prodotti nel settore dell’intelligenza artificiale non saranno mai impiegati per costruire armi. Ma la costruzione del consenso al regime cinese, a quanto pare, è un’altra storia.

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