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Bcc, una riforma autoreferenziale senza recuperi di efficienza

Il progetto di autoriforma presentato dalla Federcasse e incentrato sulla costituzione di una nuova holding capogruppo unica delle Bcc sembra cambiare molto per non cambiare nulla – Non si vedono né risparmi né recuperi di efficienza e men che mai piani industriali e innovazione tecnologica – Così non si accorcia la distanza con il resto del sistema bancario

Bcc, una riforma autoreferenziale senza recuperi di efficienza

Ad un anno esatto dal decreto sulle banche popolari e dall’invito rivolto dal Governo a Federcasse a presentare una proposta di autoriforma del credito cooperativo nei giorni scorsi sono stati annunciati i caratteri del progetto. Viene subito da dire che, dopo una gestazione di 12 mesi, non sia stato certamente partorito un topolino, quanto piuttosto una balena. Nel senso del monstrum leviatano, grazie a una mirabile sintesi tra as is e to be, che, per un attimo, ma solo per un attimo, ci ha ricordato il tormentone di Checco Zalone, sulla prima repubblica.

Guardiamo più da vicino i profili della proposta: 

a) si costituisce una nuova Holding capogruppo unica, a causa del veto, come si legge sulla stampa, posto da BCC di Roma e Cassa trentina di trasformare Iccrea Holding nella nuova entità,

b) si assicura autonomia all’etnia bancaria alto-atesina, per garantire pluralità nella unitarietà,

c) non si esclude la costituzione di subholding per dare risalto alle configurazioni regionali delle BCC (come non dare rilevanza alle componenti più di peso del movimento come Veneto, Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Lazio?),

d) si mantengono in vita, con ruolo di rappresentanza, le attuali 15 Federazioni regionali (perché far sparire un così importante e storico centro di coesione?),

e) si pensa ad attribuire alcune prerogative da queste esercitate nei confronti delle associate (internal audit e compliance) a eventuali nuove unità da costituire, per evitare ogni commistione tra associazionismo e servizi professionali alle banche,

f) restano in vita, all’insegna del “nulla è superfluo”, gli attuali organismi centrali, comprese le due Casse centrali, e quelli associativi di vertice (qualche tempo fa, dal sito Federcasse, se ne contavano una settantina)

g) si crea un contratto di coesione (o di garanzie incrociate) tra le attuali 360 BCC, gli organismi centrali esistenti e i nuovi organismi (holding capigruppo e subholding), per distribuire meglio i rischi ed economizzare sui mezzi propri, modello delle cui presumibilmente complesse modalità di gestione nulla si dice

h) si conferiscono gradi di libertà differenziati in ragione della robustezza patrimoniale delle singole banche, chiamate comunque a demandare poteri strategici alla costituenda nuova holding, incentivando meccanismi di selezione naturale, in luogo del solidarismo del più forte che aiuta il più debole

i) si ipotizza di far partire la nuova Holding con 1 miliardo di capitale, con maggioranza assoluta detenuta dalle BCC e parte restante da destinare al mercato. Fermiamo qui la rappresentazione, scusandoci delle imprecisioni e anche di alcuni giudizi, forse affrettati, contenuti in questa sintesi estrema, per passare ad altre osservazioni.

Come si coniuga questo modello con il bisogno di razionalizzazione di un sistema che, pur rappresentando poco più del 6% del mercato bancario italiano, ha costi di struttura produttiva pari al doppio, oltre a tante singole componenti caratterizzate da alti coefficienti di rischio creditizio (crediti anomali maggiori del 20%)?

Dalle statistiche sull’economics dell’intermediazione creditizia in Italia emerge, come risultato di tali squilibri strutturali, che il cliente del credito cooperativo riceve come depositante una remunerazione minore della media italiana, mentre paga il credito e i servizi più della media. Nel contempo, la gamma dei prodotti bancari offerta si è ristretta rispetto alle accresciute esigenze dei tradizionali mercati di riferimento. È invece aumentata, durante la crisi, la parte di popolazione unbanked, senza che vi siano state particolari azioni di contrasto di questo impoverimento sociale, in nome della solidarietà cooperativa.

Insomma, ci si dovrebbe impegnare a dimostrare quali siano i recuperi di efficienza attesi dalla riforma, piuttosto che concentrarsi su modalità di coesione sperimentali e, in definitiva, autoreferenziali. Il quadro complessivo sembrerebbe anche tralasciare alcune legittime possibilità di deroga all’adesione al gruppo bancario unico per quelle banche della categoria che volessero percorrere la strada dello scorporo e del conferimento delle attività in una banca costituita come società per azioni, possibilità che, è bene ricordare, è consentita dall’attuale ordinamento, senza porre a rischio la conservazione delle riserve accumulate sotto il regime fiscale previsto per l’impresa cooperativa.

Purtroppo, nessuna informazione circola sui piani industriali. Se si ambisce a raccogliere cospicui mezzi finanziari aggiuntivi per il rilancio della missione del banking cooperativo, come si pensa di farlo senza proporre soluzioni alla questione del poco edificante rapporto tra rischiosità(alta) e redditività (bassa) del credito cooperativo nel suo complesso? Nulla si sa di investimenti in tecnologia, di programmi di consolidamento e di ridimensionamento, di sviluppo e differenziazione del business, naturali esplicitazioni di un auspicabile riassetto, che, se restasse confinato al modello di governance, rischierebbe davvero di non essere credibile.

Si auspica ovviamente che tali piani siano in preparazione. Sotto questo aspetto, nei ripetuti ed espliciti riferimenti del Capo del Governo al modello Credit Agricole (una sola banca, con reti distributive territoriali) si coglie invece la preoccupazione dell’alto costo dell’intermediazione creditizia in Italia, come fattore di svantaggio competitivo rispetto ad altri sistemi. Ciò ha portato qualcuno a pensare che la riforma prospettata sia soltanto una fase intermedia di squisito sapore politico, volta cioè a gestire un consenso non altrimenti ottenibile e che proprio il modello del Credit Agricole sia il punto di arrivo definitivo, frutto del prossimo passo. Se così fosse, verrebbe senza dubbio data coerenza alla soluzione delle questioni di fondo sopra accennate.

Purtroppo andremmo incontro ad una sicura perdita di tempo, senza dimenticare che, pur essendo il terzo polo italiano per dimensione, il sistema BCC si colloca a distanza siderale dalle prime due banche italiane, restando sotto il controllo delle autorità nazionali, mentre la sua componente di vertice (gruppo bancario Iccrea) è ricompresa dallo scorso anno tra le 15 banche italiane a rischio sistemico, quindi sotto la vigilanza BCE. Verrebbe da supporre che al Governo e all’Unione Europea la proposta di riforma del movimento possa non piacere così tanto e che il sistema, per paura di contaminarsi con il mondo, come avviene al protagonista del romanzo Autodafé di Elias Canetti, rischi, con il suo essere/non essere, di finire vittima del mercato e del nuovo contesto europeo con una testa enorme e un corpo che rimane pur sempre piccino piccino.

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