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Banche a caccia di un nuovo modello, con l’occhio ai costi ma anche ai ricavi: da Mps a Unicredit

WORKSHOP THE RULING COMPANIES – Gli istituti di credito devono affrontare un cambiamento di business che non investe solo i costi ma anche le strategie sui ricavi – Da Mps a Unicredit – I luoghi comuni sul credito che indispettiscono banchieri e consulenti – Banche: da intermediarie di denaro a intermediarie di informazioni – Cercasi relationship manager

Banche a caccia di un nuovo modello, con l’occhio ai costi ma anche ai ricavi: da Mps a Unicredit

Meno masse a bilancio e più intermediazione. Il piano targato Viola–Profumo varato in settimana dal Monte dei Paschi di Siena punta a una “trasformazione radicale del modo di fare banca”.  Oltre al taglio dei costi, la trasformazione si basa sull’evoluzione, nelle parole di Mps, “del modello di intermediazione, con più prodotti intermediati e meno masse sul bilancio, puntando sull’ampliamento degli accordi distributivi con partner terzi (credito al consumo, leasing), su un’ulteriore spinta al settore “bancassurance” e su soluzioni innovative per supportare il mondo delle Pmi (ad esempio, di recente è stato lanciato il primo fondo italiano Minbond). Una trasformazione che, rileva l’istituto, “anticipa un cambiamento in atto nel settore bancario”.

Su questo punto sembra d’accordo anche Federico Ghizzoni, ceo di Unicredit dopo l’uscita di Profumo. “Il credito non può più essere l’unico prodotto che offre una banca”, ha detto Ghizzoni, lo stesso giorno in cui il cda di Mps approvava il piano , intervenendo durante un workshop a Milano dell’Associazione The ruling companies (“Il contributo delle banche al rilancio e alla crescita dell’Italia). “È colpa anche delle banche – ha aggiunto Ghizzoni – che non hanno sviluppato sufficienti alternative al credito, ma vediamo che già qualcosa è cambiato. In Europa il 53% delle esigenze finanziarie delle imprese sono state soddisfatte tramite i debt capital market, nel 2012 la media era il 36%. Si parte dalle grandi imprese ma da quello che stiamo notando la disintermediazione prenderà piede anche sulle medie e piccole, grazie ai minibond”.

La stretta sui requisiti di capitale ha innescato una riduzione degli impieghi che ha reso ancora più evidente il problema di un sistema imprenditoriale  troppo banco centrico.  Non solo. Con i tassi ai minimi le banche guadagnano poco e non hanno convenienza a erogare prestiti, che assorbono capitale di vigilanza e possono facilmente trasformarsi in sofferenze. E le  imprese, troppo dipendenti dai finanziamenti bancari,  rimangono senza ossigeno. Un circolo vizioso che incide anche sulle prospettive di crescita del Paese. Attenzione ai luoghi comuni, avvertono però banchieri e consulenti.

“Dire che poco credito genera la crisi è un luogo comune – ha detto Ghizzoni – Il credito rappresenta il 50% dei ricavi delle banche e l’80% dei rischi, senza credito anche le banche sono in difficoltà”. Sulla stessa linea Ignazio Rocco di Torrepadula, senior partner di The Boston Consulting group: “Dire che non c’è crescita perché manca il credito è un luogo comune. La verità è all’opposto. La crisi che stiamo vivendo è nata globalmente dall’eccesso di credito, non dalla sua carenza”. Uno studio della società di consulenza ha evidenziato che il 70% del credito bancario e finanziario è utilizzato dalle imprese stagnanti (ossia imprese con un tasso di crescita dei ricavi inferiore al 7%). “I dati – spiega Ignazio Rocco di Torrepadula – suggeriscono una utilizzazione del credito in larga misura destinata alla conservazione, alla parte dell’economia meno dinamica e meno sostenibile”. Analizzando le imprese stagnate e con una probabilità di default elevata, lo studio rileva che queste aziende rappresentano poco più del 20% dei ricavi del campione e assorbono da sole circa la metà delle risorse creditizie utilizzate dall’intero gruppo. “Non è l’espansione del credito il motore dello sviluppo, meno che mai l’espansione del credito indifferenziata, o peggio, a sostegno di tutte le imprese in crisi”, ha precisato Ignazio Rocco di Torrepadula. I gruppi di imprese individuati esprimono ciascuno bisogni diversi dal puro credito, e diversi tra loro (dalle ristrutturazioni, al capitale di rischio, passando per un sistema di norme più moderno sul fallimento e le crisi aziendali). Il che significa per il consulente di Boston Consulting group che serve altro oltre al credito per la crescita. “La banca – spiega – è un intermediario di denaro e dovrà diventare un intermediario di informazioni. Inoltre deve trasformarsi da banca basata sulle  relazioni a banca basata sulle competenze. Il che significa che non dovrà essere più un intermediario che usa il proprio bilancio ma un intermediario che usa le risorse che vengono da altrove, come i minibond”.

“Le cinquemila buone aziende in Italia certificate da Unioncamere (ossia con buona capitalizzazione, presenza all’estero e management valido) non hanno bisogno di credito. Cosa offre la banca?”, si chiede Flavio Valeri, Deutsche Bank, amministratore delegato di Deutsche Bank. La risposta sta nel relationship manager. “Che capisca dove va l’attività dell’azienda”,  spiega Valeri. Una dimensione che per la banca è nuova sia come sforzo infrastrutturale sia sul fronte dei profili professionali. “In Italia non riusciamo a trovare i relationship manager”, afferma Valeri che ne dipinge l’identikit: figure che parlino inglese, siano vicini al territorio e conoscano l’estero fuori dall’Europa.  Lo scenario che Valeri prefigura per le banche è di una spaccatura in due nel sistema. Ci saranno istituti che avranno un posizionamento assolutamente domestico, con prodotti semplici, senza le competenze per esempio del relationship manager, e che dovranno quindi competere sui prezzi abbattendo i costi. Oggi, spiega Valeri, le banche italiane hanno un cost/income del 70% in media ma dovranno viaggiare al 40% in futuro. Poi ci sono le banche più grandi che dovranno essere presenti in moltissimi Paesi ed essere capaci di far fronte a tutto in tutti i paesi, dai tassi alle currency. “E che dovranno capire – afferma Valeri – come coniugare la presenza locale sul territorio con questo network internazionale”.  Il ritorno al territorio, alla vicinanza con il cliente è un leit motiv che sta investendo un po’ tutto il sistema bancario italiano. Anche Unicredit, colosso prima della crisi lanciatosi in una dimensione internazionale sotto la guida di Profumo, ha inaugurato con il cambiamento di scenario e con l’arrivo di Ghizzoni una stagione di ripensamento delle logiche organizzative.  “Rientrando in Italia 3-4 anni fa sono rimasto sorpreso – ha raccontato Ghizzoni che ha ereditato Piazza Cordusio proprio da Profumo oggi presidente di Mps – ho trovato Unicredit un po’ lontano dal territorio e dalla clientela, l’approccio tramite modelli avanzati aveva creato una barriera tra la banche e le imprese. Siamo tornati a fare banca un po’ più semplice, chi è a contatto con le aziende non può cambiare ogni sei mesi ed è necessario dare le deleghe ai colleghi sul territorio. Infine, non è più importante solo la relazione banca-impresa ma bisogna capire come si muove il mondo attorno all’impresa, a partire dai fornitori, il concetto della filiera deve rientrare sempre più nel cuore delle decisioni della banca”.

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