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Addio ad Angelillo, il signore del gol: “Il suo calcio era una danza”

E’ scomparso a 80 anni uno dei campioni più idolatrati dai tifosi e il recordman del gol con 33 reti in un solo campionato – Con Sivori e Maschio faceva parte del “trio delle facce sporche” dell’Argentina – Un mito dal volto umano dimenticato troppo presto

Addio ad Angelillo, il signore del gol: “Il suo calcio era una danza”

Addio ad Antonio Valentin Angelillo, come pochi altri campione amato e idolatrato dagli interisti, che da più di mezzo secolo deteneva con 33 reti il primato di goleador più prolifico del campionato a 18 squadre. E ne avrebbe avuto uno in più se – come ricordano i tifosi nerazzurri interisti più vecchi e incalliti alla Prisco – gli dei del pallone, quel pomeriggio lontano del 7 dicembre 1958, invece di prepararsi alla prima della Scala, non si fossero malignamente divertiti a scaricare nel catino di San Siro, dove si giocava Inter-Juventus, vagonate di nebbia grigia e densa da far sparire anche le traiettorie del pallone.

Prima Edwing Firmani, il tacchino freddo, poi Angelillo su rigore stavano firmando un perentorio 2 a 0 ma a mezzora dalla fine del secondo tempo l’arbitro sospese la partita. Venne ripetuta il 18 dicembre e a vincere fu la Juventus di Charles e Sivori per 3-1. Per l’Inter segnò Bicicli. Angelillo restò a bocca asciutta. L’Inter perse i contatti dal Milan che vincerà lo scudetto, con sei punti di vantaggio sui cugini.

Angelillo continuò a segnare ma con quel gol “revocato” avrebbe potuto essere ancor oggi con Meazza il giocatore con il maggior numero di reti (ben 39 realizzate) in una sola stagione tra campionato e coppe ufficiali. Fantastica fu quella annata per il fuoriclasse argentino, che ad appena 21 anni infuocò gli stadi segnando gol a valanga. Un autentico dio del pallone: anche Gianni Brera, mai tenero con gli eroi della pedata, si sciolse in peana memorabili. “I suoi piedi – ha scritto il celebre giornalista – si appoggiavano alla palla come un pennello ai colori in tavolozza. La sua falcata variava secondo estri e necessità agonistica. Il suo calcio era propriamente una danza ora concitata ora lieve, ora violenta ora blanda e quasi soave nei toni”.

Da sempre seguo l’Inter e non ricordo tra il popolo nerazzurro un entusiasmo ai confini del delirio pari a quello che esplose a San Siro quando, con una rovesciata impossibile, Angelillo siglò il terzo gol contro la Roma portando l’Inter a vincere una partita che perdeva per 2-0 alla fine del primo tempo. E pensare che solo l’anno prima Angelo Moratti, il papà di Massimo, che lo aveva acquistato dal Boca Juniors pensava che gli avessero rifilato una brutta copia del goleador argentino che con Sivori e Maschio aveva formato il trio degli angeli dalla faccia sporca, un formidabile attacco che aveva portato la nazionale argentina a battere il Brasile e trionfare nella Coppa America.

Nel 1957-58 era ancora l’Inter di Benito Lorenzi e del suo clan. Veleno non vedeva di buon occhio gli oriundi, tanto meno quello che gli era capitato di giocargli insieme, uno “stranieraccio” e niente più al quale non voleva in partita nemmeno passargli una palla. Angelillo soffriva sotto quei baffi che gli davano più anni di quei pochi che aveva, rimpiangendo tutto: Buenos Aires, i genitori, il calore degli applausi dei tifosi argentini. Tanto intristito che lo stesso Moratti chiamò Fongaro e Masiero, due giocatori scelti tra gli scapoli della squadra più portati a far baldoria, perché nelle loro uscite serali aggregassero con loro anche quel compagno immalinconito.

E qui gli dei del pallone, che per Antonio Valentin Angelillo avevano già deciso di farne un protagonista di “Triste, solitario y final” di Osvaldo Soriano, lo condussero, sotto le spoglie dei due difensori nerazzurri, in un night di Piazza Diaz dove si esibiva una certa Attilia Tironi, in arte Ilya Lopez. E scoppiò la scintilla della passione. Angelillo si tagliò i baffi e cominciò sentirsi più milanese. In estate Lorenzi lasciò l’Inter per andare all’Alessandria. E lui, il bell’Antonio, ritrovato d’incanto il passo felpato e felino, cominciò a segnare una caterva di gol.

Il trentatreesimo, quello del record, lo realizzò all’ultima giornata contro la Lazio. Entrò nel mito. I tifosi, scimmiottando un successo di allora di Tony Dallara, il re degli urlatori nostrani, cantavano “Chi sei tu Valentin, che fai tremare tutti i terzini”. Moratti se lo coccolava ma voleva vincere lo scudetto che da troppo tempo mancava in bacheca. Così nella stagione 1960-61 ecco che all’Inter, strapagato come nessun altro allora, arriva Helenio Herrera che in Spagna con il Barcellona aveva fatto sfracelli. È ispano-argentino ma il suo calcio è muscolare e offensivo. Ci si chiede come farà a conciliarlo con quello di Angelillo, Firmani, Lindskog che hanno altre qualità e per giunta non amano i ritiri prima e dopo gara che il nuovo mister vuole introdurre.

L’inizio del campionato è altisonante e pare cancellare le ansie della vigilia. L’Inter rifila cinque gol all’Atalanta a Bergamo, poi fa 2-1 a San Siro contro il Bari, un altro 6-0 fuori casa a Udine: il “MilanInter”, vecchio settimanale del tifo meneghino, titola “Non c’è Santi che tenga”, giocando sul nome del portiere dell’Udinese. Alla quarta giornata è il Lanerossi a soggiacere alla macchina da gol costruita da Herrera, in cui Angelillo, anche se meno leader ma sempre capitano, fa la sua parte. Ma dopo il Vicenza venne la fatale Padova in cui Nereo Rocco impartì una lezione di calcio al Mago. L’Inter perse male, molto più di quel che diceva il punteggio di 1-2: i patavini al confronto dei leziosi nerazzurri erano veloci come fulmini. Herrera sul treno che lo riportava a Milano cominciò a meditare la grande conversione tattica: disporre la difesa con il libero che sarebbe stato Picchi.

Ma in questa nuova formula all’attacco c’era un giocatore di troppo che andava sacrificato: la scelta cadde su Angelillo. Il mago ce l’aveva già in mente ma il destino gli facilitò la scelta in quanto fu lo stesso Angelillo a mettersi fuori rosa scendendo furtivamente dal treno quando il convoglio si fermò a Brescia: lì abitava la sua Ilya. Che il mago e il suo “taca la bala” andassero a quel paese. Da allora giocò più tra le riserve che in prima squadra. Gli venne tolta anche la fascia di capitano che passò a Picchi. Nel Paese dove un idolo come Coppi era stato scomunicato e massacrato per amare una donna sposata, poteva salvarsi il grande calciatore caduto nel peccato con una ballerina?

Oggi, tra veline e discoteche, tra cocaina e notti folli, la vicenda di Angelillo farebbe sorridere. Ma allora fu un altro dramma, per lui, angelo ripudiato dal mago e costretto a lasciare l’Inter, e per i tifosi che persero il loro idolo preferito. Angelillo emigrò a Roma dove rimase quattro anni, giocando sempre meno da goleador e sempre più da suggeritore per piedone Manfredini. Ma non toccò più i vertici della stagione del record. Anzi per i sostenitori di Herrera, che crescevano di pari passo ai successi del mago, fece davvero poco per dimostrare che fosse stato un errore venderlo. Alla soglia dei 30 anni tornò a Milano, sponda rossonera: giocò pochissimo ma con il Milan di Nils Liedholm vinse quello scudetto che non era mai riuscito ad acciuffare quand’era in auge.

Poi ancora tirò qualche calcio a Lecco e nel Genoa, in un triste tramonto sportivo, quasi dimenticato da tutti. I tempi ruggenti del record erano ormai lontani. Pure Ilya era un capitolo chiuso. Provò a fare l’allenatore ma non ebbe molta fortuna anche se riuscì nell’impresa di riportare l’Arezzo in serie B. Tornò sul palcoscenico della serie A e di San Siro con il Pescara ma fu uno sprazzo di luce che subito si spense. Anche la storia d’amore con Ilya si era chiusa da tempo. Di Angelillo si parlò sempre meno, praticamente scomparso. Ma proprio nel giorno della sua scomparsa, gli amanti del bel calcio – non solo quelli di fede interista – si rendono conto che se ne è andato un mito troppo presto dimenticato.

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