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I dazi, il futuro dell’Europa, dell’Italia e della democrazia, il rapporto tra banche e imprese: cosa aspettarsi dal Forum Ambrosetti

Il banchiere Giovanni Bossi, fondatore e Ceo di Cherry Bank, anticipa i temi al centro del Forum Ambrosetti che comincia oggi a Cernobbio e che riunisce il gotha dell’economia e della finanza. “Più che mai i mercati non chiedono previsioni astratte ma scenari credibili. Tocca a noi costruirli, sapendo che la finanza e la politica non viaggiano più su binari paralleli, ma si condizionano a vicenda in tempo reale”

I dazi, il futuro dell’Europa, dell’Italia e della democrazia, il rapporto tra banche e imprese: cosa aspettarsi dal Forum Ambrosetti

Gli Stati Uniti e la questione dei dazi; l’Europa e le risposte e azioni che ancora mancano; la democrazia che verrà; i nuovi equilibri tra politica e finanza in Europa e nel mondo; il ruolo dell’Italia e le prospettive del rapporto tra banche e imprese: sono questi alcuni dei temi al centro del confronto che ci attendiamo al The European House Ambrosetti di Cernobbio (Teha), che prende il via venerdì 5 settembre. Un appuntamento che, da anni, rappresenta il “gong” simbolico della ripresa dopo la pausa estiva. Lo scorso marzo, durante la sessione primaverile dedicata alla finanza, ci eravamo interrogati – di certo senza trovare risposte definitive – sulle conseguenze dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Allora era ancora presto per delineare scenari chiari.

Sui dazi Trump fa sul serio, ma per gli Usa il vero tema sono i conti pubblici

Oggi, invece, appare evidente che gli Stati Uniti stanno facendo sul serio. I dazi imposti non risparmiano nessuno: sono di fatto una tassa occulta per i consumatori americani, poiché innescano inflazione. Ma il problema principale dell’amministrazione Trump e del segretario al Tesoro Bessent è un altro: la gestione dei conti pubblici. Ecco alcuni dati:

  • Deficit federale: circa 2.000 miliardi di dollari l’anno (stima 2025).
  • Debito pubblico complessivo: 35.000 miliardi di dollari, con scadenze nel 2025 per circa 7.000 miliardi.
  • Fabbisogno annuo pubblico complessivo: 9.000 miliardi di dollari, da reperire con certezza.
  • Gdp Usa: 29 mila miliardi di dollari

Non si tratta tanto di sostenibilità di lungo periodo – come è accaduto per altri Paesi in passato – quanto della difficoltà concreta di collocare sul mercato una massa di debito senza precedenti.

Con l’attuale livello dei tassi e con il rischio di nuove tensioni inflattive, il Tesoro Usa potrebbe trovarsi a pagare interessi insostenibili, soprattutto perché la durata media del debito è più breve rispetto agli standard europei. A ciò si aggiunge la svalutazione del dollaro negli ultimi sei mesi, che potrebbe proseguire, erodendo il ruolo della valuta come riferimento globale e rendendo più oneroso il collocamento delle emissioni, in particolare a lungo termine.

Preoccupano le tensioni con la Fed: il dollaro rischia

Un ulteriore elemento di incertezza riguarda la Federal Reserve. Se la nuova amministrazione dovesse ridurne l’indipendenza, trasformandola in uno strumento di politica governativa, i mercati reagirebbero con forte scetticismo, e molti investitori potrebbero ridurre la loro esposizione in dollari. La domanda che tutti si pongono è: dove potrebbero spostarsi i capitali globali? Sarà interessante il confronto con i panel internazionali, stavolta più che mai chiamati a mettere via la sfera di cristallo e a parlare di scenari concreti.

La situazione europea e le risposte che mancano

Se oltreoceano la sfida è quella di reperire risorse e gestire un debito colossale, in Europa lo scenario appare diverso ma non meno complesso. Manca ancora una vera e propria strategia comune: le risposte sul piano industriale, energetico e finanziario sono frammentate, e i singoli Paesi faticano a coordinarsi. Ricordiamo i dati:

  • Gdp Ue: circa 20mila miliardi di euro
  • Debito pubblico Ue: 14 mila miliardi di euro

In Europa ci sarebbe lo spazio per emettere debito con rating molto elevato ma dovrebbe trattarsi di debito comune, non di una competizione tra Italia, Germania o Spagna. È tempo di guardare all’Unione come all’unica, e forse ultima, vera opportunità. Se non sapremo coglierla, rischiamo di diventare irrilevanti. In un contesto globale dominato da logiche di forza, la stessa tenuta della nostra sovranità nazionale verrebbe messa in discussione.

L’esempio della Francia è emblematico: i conti pubblici appaiono sempre più fragili e la stabilità politica è incerta. I rendimenti sui titoli di Stato a due e cinque anni sono ormai superiori a quelli italiani, e solo sul decennale Parigi mantiene un minimo vantaggio. C’è di più: circa il 50% del debito francese è detenuto da investitori internazionali, mentre in Italia la quota è pari al 30% – un dato che ci rende relativamente più resilienti. Certo, in rapporto al Pil la Francia resta ancora leggermente meglio posizionata rispetto all’Italia, ma il divario si sta rapidamente riducendo.

La forza dell’Europa deve essere la coesione

La forza dell’Europa dovrebbe essere la capacità di agire come blocco coeso, non la somma di 27 politiche divergenti. Di fronte a tensioni globali, la mancanza di una regia unitaria rischia di lasciare l’Europa ai margini di ogni dialogo. Sembra che ce ne siamo accorti ma l’architettura europea e la mediazione; e il dramma della necessità del voto unanime dentro la Ue lasciano ancora troppe materie alla mercé di singoli blocchi che non possono più far parte di questa Europa.

Il tema della democrazia che verrà e dei nuovi equilibri tra politica e finanza si inserisce in questo quadro. La credibilità delle istituzioni, la capacità di governare la transizione energetica e tecnologica e l’abilità di attrarre capitali internazionali saranno elementi determinanti.

Incidentalmente: ma dove sono le agenzie di rating? Standard & Poor’s, Moody’s, Fitch. La Francia ha rating AA-. L’Italia BBB+: sono quattro livelli di differenza che non sono giustificati né dai fatti, né dalle prospettive. Già il Presidente Mattarella proprio all’Ambrosetti un anno fa lo ha ricordato chiaramente, ma ora proprio non si capisce.

Focus sull’Italia

Per l’Italia, una delle sfide principali resta il rapporto tra banche e imprese. La disponibilità di credito, soprattutto per le piccole e medie imprese, è condizione necessaria per sostenere crescita e innovazione.

Un ridisegno del sistema bancario è più che probabile: le prossime settimane ci diranno in quale direzione si andrà. Qualunque sia l’esito dell’opas di Mps su Mediobanca, è evidente che il processo non si fermerà qui. Personalmente considero la “biodiversità” del sistema bancario un valore: la nascita di grandi colossi porta con sé opportunità ma anche rischi, perché uniforma l’offerta e riduce la capacità di erogare credito. È il classico effetto per cui uno più uno non fa due, ma uno e mezzo. Allo stesso tempo, però, servono campioni in grado di competere su una scala europea: trovare l’equilibrio tra dimensione e diversificazione resta una sfida cruciale.

Restando in Italia, un ruolo determinante nel rapporto banche-imprese – e questo varrebbe anche se al posto delle banche ci fossero fondi privati o altri soggetti finanziatori – è dato dalla presenza delle garanzie pubbliche. Altro nodo cruciale è rappresentato dalle composizioni negoziate delle crisi d’impresa. Due aspetti distinti, ma entrambi capaci di condizionare il flusso di liquidità dai risparmiatori al sistema produttivo.

Le garanzie pubbliche, introdotte in maniera massiccia durante la pandemia, oggi sono in progressiva riduzione. Il loro costo per i conti dello Stato è stato elevato ma di certo giustificato dai benefici ottenuti in termini di maggiore credito alle imprese. Non sappiamo quale sarà la configurazione dal 2026: si ragiona di un’ulteriore stretta, necessaria per tornare a condizioni di normalità. Tuttavia, sembra che col tempo queste garanzie finiscano per favorire sempre più le imprese strutturate e solide – che teoricamente ne hanno meno bisogno – e sempre meno le aziende fragili o le start-up, che ne avrebbero invece maggiore necessità.

Garanzie pubbliche per permettere alle banche di sostenere il sistema produttivo

Va ricordato che grazie a queste garanzie le banche possono impiegare meno capitale nel finanziare il sistema produttivo. Alterare questo equilibrio può produrre conseguenze molto più ampie di quanto si immagini. Chi eroga credito non può non tenerne conto, e non essere preoccupato.

Sul fronte delle crisi d’impresa, cresce il numero delle aziende che scelgono di dichiararsi formalmente in “crisi” o in “pre-crisi”, spesso con l’obiettivo di proteggersi dai creditori. Il rischio, però, è che il sistema abbia spinto troppo oltre queste tutele.

È probabile che occorra un ripensamento per riportare a maggiore equilibrio il rapporto tra imprese indebitate e banche creditrici. Se ciò non avverrà, soprattutto le aziende più piccole e fragili, senza garanzie e senza reputazione da difendere, rischieranno di non trovare più alcun istituto disposto a concedere loro credito, per il legittimo timore delle banche che esse possano ricorrere in futuro a procedure “taglia-debito”.

Il nostro Paese ha bisogno di rafforzare il dialogo tra sistema bancario e tessuto imprenditoriale. Le banche devono continuare a essere partner dello sviluppo, non solo fornitori di capitale. Le imprese, dal canto loro, devono presentarsi più solide e trasparenti, aprendosi al mercato dei capitali, anche attraverso strumenti innovativi e operazioni di mercato.

Il contesto internazionale, con tassi ancora elevati e mercati finanziari in tensione, non rende semplice questo percorso. Tuttavia, proprio in scenari di incertezza, le economie che sapranno muoversi con credibilità e coerenza potranno conquistare la fiducia degli investitori.

Le attese per Cernobbio

Il confronto al Teha sarà quindi l’occasione per mettere a fuoco non solo i rischi, ma anche le opportunità. L’auspicio è che, accanto alle analisi sugli Stati Uniti e sui dazi, emerga una visione concreta per l’Europa e un nuovo slancio per l’Italia.

Più che mai i mercati non chiedono previsioni astratte, ma scenari credibili. Tocca a noi costruirli, sapendo che la finanza e la politica non viaggiano più su binari paralleli, ma si condizionano a vicenda in tempo reale.

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