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Imprese: la diversità di genere, colore, cultura può essere un affare

Per le imprese le differenze (di cultura, di colore, di provenienza, di genere) sono un peso da gestire? Niente affatto. I casi di Vodafone, della Barilla e non solo lo dimostrano

Imprese: la diversità di genere, colore, cultura può essere un affare

Sorpresa, ma non troppo: la diversità (di cultura, di provenienza, di colore, di genere) non solo non rallenta il business ma è un’ottima carta da giocare per allargare gli orizzonti. Quelli operativi dell’impresa, ma anche quelli finanziari. Regala stimoli ed efficienza. Insomma, può essere un vero affare. Tanto che gli analisti del settore, e naturalmente quelli delle imprese più votate all’innovazione, stanno velocemente abbracciando il nuovo credo: il Diversity Management ha il cuore etico ma, e non c’è nulla di male, la mente centrata sui ricavi.

L’idea di fondo è appunto che la diversità delle risorse umane contrasti le discriminazioni ma risulti anche utile alla migliore gestione del personale e alla crescita d’impresa. Come nel caso degli investimenti nel settore ambientale o nel microcredito è possibile incrementare i guadagni facendo la cosa giusta, migliorando il mondo in cui si vive, mettendo d’accordo profitto e valori umani. Strumento di questo business diventa così l’implementazione e la valorizzazione delle differenze umane dei dipendenti: genere, abilità fisiche, etnia, nazionalità, caratteristiche somatiche, ceto, cultura, età, inclinazioni sessuali.

Concepito negli U.S.A. degli anni ’80, in relazione alle esigenze tipiche di una società multietnica e multiculturale, si è sviluppato sotto la spinta dei mercati globalizzati e dell’evoluzione culturale e sociale in atto a livello planetario. Dalle multinazionali americane si è diffuso alle grandi e medie aziende di tutto il mondo, alimentato dai cambiamenti demografici e della forza lavoro, dalla diversificazione etnica e culturale dei mercati, dalla progressiva introduzione di normative contro le discriminazioni.

Il valore della diversità è sempre più percepito dalle imprese come orientamento etico ma anche come fattore di crescita, di competitività e anche di business. La diversità è diventata un riferimento centrale delle politiche aziendali, in termini di comunicazione esterna, gestione delle risorse umane, produttività. “L’inclusione è sempre più una necessità e questo non solo per ragioni etiche, ma anche di business” conferma Aldo Bisio, amministratore delegato di Vodafone Italia.

La gestione della diversità in azienda è divenuta una necessità imprescindibile in un mondo sempre più complesso, globalizzato e interconnesso osserva Marella Caramazza, direttore generale di Istud Business School. Secondo Claudio Colzani, A.D. di Barilla, “promuovere diversità e inclusione non significa solo fare la cosa giusta, ma anche sostenere la strategia di crescita. Una forza lavoro diversa e una cultura inclusiva accrescono l’impegno e tengono conto di una comprensione più profonda della società, portando a un processo decisionale più forte”.

Vediamo allora gli aspetti più importanti della sfida.

La diversità è un’opportunità di sviluppo, sotto molti aspetti. I più rilevanti:

  • miglioramento dell’immagine esterna (verso i clienti e gli interlocutori istituzionali) e interna (nei confronti dei dipendenti e dei sindacati), grazie alla conformità di azione rispetto a un valore largamente condiviso;
  • acquisizione di competenze culturali ed esperienziali diversificate, capaci di interagire efficacemente con mercati globalizzati, sia a livello strategico di Top Management, sia a livello operativo (in particolare per i settori customer, comunicazione e logistica);
  • attrazione di personale qualificato proveniente da minoranze presenti sul mercato globale, interessato a un contesto lavorativo inclusivo e aperto;
  • aumento dell’innovazione e della creatività, in relazione alla dinamica dei rapporti tra dipendenti portatori di culture ed esperienze disomogenee;
  • incremento delle opportunità di finanziamento da investitori progressivamente più attenti ai profili di Diversity & Inclusion.

L’inclusione aumenta il benessere collettivo e la qualità dell’interazione personale, creando migliore collaborazione professionale e liberando le potenzialità di ogni individuo. L’ad di Vodafone Italia, Aldo Bisio, non ha dubbi: “Socialmente non può essere accettato nessun modo di agire che non si basi su criteri di meritocrazia e per un’azienda avere un approccio non inclusivo comporta un enorme spreco di talento. Per questo abbiamo definito un’Agenda Vodafone dell’inclusione che prevede una serie di misure per favorire la diversità e l’inclusione in azienda”.

È inevitabile procedere in questa direzione, perché la legge lo impone e i mercati e lo richiedono, in termini di offerta di lavoro, produttività e competitività. Anche su questo punto il pensiero di Aldo Bisio è tassativo: “Nel mondo in cui viviamo oggi, la diversità è estremamente frammentata e se noi, come azienda, non riusiamo a diventare uno specchio della società rischiamo di non interpretarla in modo corretto”. Stessa convinzione per Yolanda Conyers, Responsabile della Diversity per Lenovo: “Diversità e inclusione consentono di fare nostre le idee migliori e più innovative, oltre a consentirci di comprendere meglio le esigenze dei nostri clienti”.

Insomma, non ci sono alternative, salvo che, nel rispetto dei vincoli legge, non si operi in un settore di mercato chiuso e rigido, indifferente alla dinamica sociale e culturale; ovvero in un contesto monoculturale, monoetnico e segnato da pregiudizi e preclusioni, scontando una progressiva emarginazione nel mondo che cambia. Situazioni limite, difficilmente riscontrabili.

Certo, l’inclusione e l’integrazione dei soggetti appartenenti a minoranze può creare difficoltà e tensioni in particolari realtà aziendali, specie nelle fasi di transizione organizzativa e di assestamento culturale; ma è altrettanto evidente che tali tensioni vadano affrontate come elementi di un contesto aziendale in divenire e gestite proprio nell’ambito del Diversity Management.

Rispetto alle singole realtà aziendali, i parametri per comprendere se esiste un deficit di diversità, a parte i vincoli di legge e i principi etici di non discriminazione ed inclusione, ineriscono al rapporto tra attività d’impresa e potenziale utile della diversità e inclusione. Tanto più l’azienda opera su un mercato aperto, caratterizzato da eterogeneità di concorrenza e clientela, tanto più ha utilità o necessità di apporti diversificati, per poter competere e interagire efficacemente. Al limite, se l’azienda è completamente globalizzata, cioè attiva a livello planetario, non è dubbio che debba avere personale così diversificato da essere in grado di gestire e comprendere le molteplici realtà delle persone e delle società nel mondo.

Nel quotidiano, la diversità si realizza contrastando ogni discriminazione e favorendo l’inclusione, ma anche con iniziative concrete. Così una grande azienda come Vodafone ha raddoppiato lo smart working per le mamme e i papà al rientro dalla maternità o congedo di paternità; ha istituito un Maternity Angel per le dipendenti in maternità (una persona all’interno dell’azienda che le tiene  aggiornate per facilitare il rientro); prevede “ferie solidali”, che le persone possono scegliere di donare a colleghi in caso di particolari necessità di salute; riconosce diritti e welfare per le unioni civili, dalla licenza matrimoniale per le coppie dello stesso sesso, fino all’estensione della copertura sanitaria integrativa; favorisce lo scambio di conoscenze reciproche tra generazioni; promuove la valorizzazione dei diversi background culturali all’interno dell’azienda attraverso percorsi dedicati ai neoassunti e attraverso iniziative per la comprensione e la semplificazione dei linguaggi interni.

L’evoluzione verso la diversità richiede naturalmente attenzione ai costi, che riguardano essenzialmente le spese di personale dedicato, di tempo per la comunicazione e la formazione, di consulenza organizzativa e legale, di possibili inefficienze correlate agli attriti tra soggetti disomogenei, di benefici lavorativi ad personam. I benefici possono essere valutati sul clima aziendale a medio-lungo termine, sull’immagine di impresa, sul fatturato da innovazione e competitività, sugli skill strategici, sulla produttività del personale.

In base agli studi disponibili, le aziende che investono sulla diversità hanno un ritorno utile verso i propri clienti, al punto che non poche campagne pubblicitarie sono centrate sulla diversità e che molte grandi aziende competono per ottenere migliori posizioni negli indici che valutano il grado di inclusione del personale. Nel contempo queste aziende sono più efficienti, perché hanno migliore capacità decisionale e raccordo col mercato. In sostanza crescono e guadagnano di più rispetto ad aziende omogenee e non inclusive.

Non solo. Oltre il ritorno promozionale, attraverso la diversità è possibile implementare l’innovazione e la creatività. L’analisi di contesto e i processi decisionali si conformano alla cultura prevalente nel contesto aziendale, specie in funzione delle relazioni gerarchiche e degli interessi individuali alla stabilità delle relazioni interne. Il conformismo aziendale può quindi ostacolare o impedire l’ingresso e l’elaborazione di idee non ortodosse potenzialmente utili. Al contrario, se la cultura aziendale è aperta e dinamica, si crea lo spazio sociale per le proposte innovative e creative, a tutto vantaggio della competitività d’impresa.

Nel contempo, le diversità in azienda migliorano i processi decisionali. L’attenzione non va focalizzata sulla strada più comoda per mettersi d’accordo nelle riunioni di lavoro, rifiutando l’interazione con idee e persone che possono portare contributi non ortodossi. L’obiettivo è quello di trovare il modo per avere processi decisionali più competenti e connessi alla realtà. E la diversità costituisce un mezzo per il raggiungimento di tale obiettivo.

Alla ricerca della diversità, molte aziende attuano una selezione in ingresso e in avanzamento basata per quote, riservando alcune posizioni a soggetti appartenenti a minoranze: tale sistema risulta il più garantista, dal punto di vista della Diversity, ma può comportare scelte che privilegiano la diversità sul merito. Tale effetto, che può apparire negativo, va tuttavia valutato alla luce dell’utilità generale che l’azienda trae dal garantire in ingresso e in avanzamento adeguate quote di diversità. In alternativa, vi sono aziende che operano giudizi di sintesi dei candidati, in sede di reclutamento e promozione, valutando il merito unitamente alla condizione di appartenenza a una minoranza: tale sistema, indubbiamente più complesso e opinabile, può in teoria costituire un valido mezzo di contemperamento delle diverse esigenze.

Sotto il profilo etico, non c’è dubbio che l’azienda sia finalizzata al profitto. Ma è un dato di fatto che la responsabilità sociale d’impresa costituisca un elemento sempre più rilevante della cultura d’impresa. In una logica di sinergia tra etica e business: le aziende con maggiore responsabilità sociale riescono di norma a conseguire migliori risultati economici, per la possibilità di conseguire un vantaggio competitivo dalla capacità di legittimarsi socialmente, avere approvvigionamento finanziario dedicato, motivare eticamente il personale, i fornitori e i clienti.

In Italia l’attenzione alla diversità e all’inclusione in azienda è andata crescendo nel tempo (un passaggio importante è stata la presentazione nel 2009 della Carta per le pari opportunità e l’uguaglianza sul lavoro). Il limite incontrato dal tessuto produttivo italiano è stato dimensionale. Le grandi aziende hanno mezzi e risorse per sostenere la Diversity, comprendendo il correlato potenziale economico. Le PMI hanno difficoltà o esprimono resistenze, sia sul fronte dei costi che delle implicazioni gestionali, schiacciandosi su un atteggiamento prevalentemente difensivo, centrato sul rispetto della legge, sulla necessità di proteggere l’immagine aziendale, sull’evitare problemi con il personale o i sindacati.

Conseguenza di tale impostazione è che la gestione delle diversità, sulla base dei dati della Commissione europea, riguarda prevalentemente le donne (due terzi delle azioni) e i disabili (un quarto delle iniziative), restando sullo sfondo le questioni inerenti alle discriminazioni culturali ed etniche (10%), l’orientamento sessuale (7%), la religione e le opinioni personali (2%). L’incremento dei lavoratori stranieri e la crescente sensibilità antidiscriminatoria spingono tuttavia verso una progressiva apertura anche delle PMI all’insieme delle questioni inerenti diversità e inclusione.

L’ultimo rapporto Randstad Workmonitor offre una fotografia di sintesi della situazione italiana: siamo ai primi posti per il desiderio di lavorare in un’azienda attenta alla responsabilità sociale, ma solo il 50% per cento delle imprese è impegnata sulla valorizzazione di diversità e inclusione. Insomma, c’è spazio e opportunità per crescere.

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