Tra un anno la cifra sarà tonda: 80 ricorrenze. Era il 2 giugno 1946 quando il voto del popolo italiano a favore della Repubblica – per la prima volta si espressero le donne – coronò la lotta di liberazione dal nazifascismo e fu premessa della Costituzione. Quella data è diventata la nostra festa della Repubblica. Di cosa significhi il 2 giugno oggi, tra princìpi di libertà, democrazia e solidarietà calati nel vivere attuale e riforme più referendum alle porte, ne parla in un’intervista con FIRSTonline il professor Stefano Ceccanti, costituzionalista, già parlamentare e docente di Diritto pubblico all’Università La Sapienza di Roma.
Proprio ieri, alla vigilia dell’anniversario odierno, il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha voluto ricordare che “il compito di attuare in concreto gli ideali costituzionali, di renderli vivi nella società quale costante criterio ispiratore delle scelte, è una missione mai esaurita, affidata ogni giorno anzitutto alla premura di quanti, con dedizione e competenza, prestano la loro opera nelle istituzioni e nella società civile. La Costituzione affida, infatti, a ciascun cittadino la responsabilità di concorrere alla coesione sociale del Paese. Nei diversi ambiti di azione, interviene l’impegno per assicurare effettiva pienezza dei diritti, con servizi efficienti, legalità e sicurezza”.
Tuttavia, il rischio involuzione autoritaria anche in Italia viene denunciato da più parti e da più tempo.
Professor Ceccanti, quali princìpi della nostra Costituzione trovano ancora spazio in questa ricorrenza e quali sono invece le parti della Carta che meriterebbero un aggiornamento?
“Non aderisco a un filone di costituzionalismo ansiogeno che descrive i problemi classici di cui soffriamo, e quelli nuovi che possono derivare da scelte sbagliate dell’attuale Governo, come la caduta rispetto a un’età dell’oro che sarebbe alle nostre spalle. I principi della Costituzione, quelli dei primi articoli della nostra Costituzione, recentemente integrati dall’esplicitazione del diritto all’ambiente, sono ampiamente radicati nella società italiana. I problemi non risiedono affatto in un presunto mancato radicamento dei principi ma nella ricerca di nuovi strumenti e di nuove mediazioni per farli vivere in modo efficace”.
Dl sicurezza, attacchi alla magistratura, libertà dei media: la destra di governo pare piuttosto a disagio con la democrazia. Lo stato di diritto in Italia di che salute gode?
“Penso che dovremmo tenere presenti due questioni. La prima è la differenza tra leggi sbagliate e leggi incostituzionali. Personalmente, dal punto di vista dell’indirizzo politico, non condivido quasi nulla delle scelte dell’attuale maggioranza di governo, ma il fatto che io non le condivida, che a seconda dei casi le consideri sbagliate o anche massimamente sbagliate, non significa che siano automaticamente anche incostituzionali. Spesso sono scelte sbagliate che però ripercorrono scelte a loro volta sbagliate: ad esempio la dipendenza dell’informazione pubblica dai governi pro tempore è reale, ma non nasce oggi. Ha avuto solo rare eccezioni. Seconda questione: lo Stato di diritto nei nostri ordinamenti è garantito da tre elementi-chiave che svolgono tuttora un ruolo benefico. Vale a dire: una Corte costituzionale di assoluta indipendenza, una Presidenza della Repubblica autorevole, l’appartenenza all’Unione europea. Sono elementi permanenti del nostro ordinamento che svolgono benissimo la loro funzione”.
A proposito di magistratura: la separazione delle carriere è un bene, un male o una necessità costituzionale?
“La separazione delle carriere in sé non può essere certo demonizzata. Non è esclusa dalla Costituzione vigente tant’è che abbiamo potuto effettuare due referendum abrogativi su leggi ordinarie che andavano in quella direzione, e comunque sul piano della legislazione ordinaria siamo andati comunque in quella direzione riducendo ad uno solo i passaggi da una funzione all’altra. Il dibattito è aperto specie da quando, nel 1999, una revisione costituzionale ha inserito nell’articolo 111 il principio del “giudice terzo” che ha come conseguenza più naturale la separazione. Detto questo sul SE, il problema decisivo è il COME. Non si capisce perché legare questa scelta a forme di sorteggio deresponsabilizzante che indebolirebbero la capacità rappresentativa dei Consigli superiori della magistratura. Le critiche sono giustissime se colpiscono il COME, non il SE“.
C’è chi dice che, dopo i risultati del patto “extralarge” alla genovese che ha (ri)portato il centrosinistra alla vittoria nel capoluogo ligure e Silvia Salis a essere eletta nuova sindaca, è probabile che la premier Giorgia Meloni vorrà imprimere un’accelerazione alla riforma della legge elettorale, in vista delle Politiche 2027, giacché – numeri alla mano – l’opposizione riesce a diventare competitiva col centrodestra se e quando si mette insieme. Il professor Fulco Lanchester lo chiamava “ipercinetismo elettorale compulsivo”, tatticismi, cioè, dettati dal momento. Lei che nome gli dà?
“Io capovolgerei il problema. Possiamo lasciare la legge elettorale così com’è? Evidentemente no perché essa è ampiamente criticata sia sotto il profilo della precisa individuazione dei candidati (le liste sono bloccate e i collegi troppo ampi) sia sotto quello di una legittimazione diretta del Governo, che ci deve essere in modo più chiaro per rendere il cittadino arbitro della scelta del Governo, A questo punto occorrerebbe un tavolo per cercare di approvare una legge in modo condiviso come accadde con la legge Mattarella, con quella sui sindaci del 1993 e con quella regionale del 1995. Solo se fallisse questo tentativo, la maggioranza potrebbe anche approvarla da sola. Qui invece temo si voglia ancora una volta approvarla da parte della sola maggioranza, scelta legittima ma radicalmente inopportuna perché contribuisce fatalmente a quell’ipercinetismo di cui parla il professor Lanchester”.
Ancora riforma elettorale. Pare abbiano creato allarme nel centrodestra una serie di proiezioni secondo cui, con l’attuale sistema, la maggioranza sarebbe in sofferenza nei collegi uninominali del Sud: e questo sarebbe il primo aspetto da toccare. Ma tra le ipotesi che circolano con più insistenza figurano: un proporzionale con premio di maggioranza del 15% una volta superata la soglia del 40% (si ragiona anche sul 42%, e nel centrosinistra potrebbe trovare consenso il 45%), il capolista bloccato e le preferenze sul resto del listino. Che ne dice?
“Il metodo migliore per favorire sia la scelta dei candidati sia la legittimazione diretta del Governo è ricorrere ai collegi uninominali maggioritari, meglio se a doppio turno, quando – come nel nostro caso – si parte da un’elevata frammentazione. Se tutti i parlamentari sono eletti in collegi (meglio ancora riunendo i 600 eletti in un’unica Camera politica), è garantito un rapporto vero tra eletto ed elettore e la logica maggioritaria è più naturale. La creazione di una maggioranza non è assicurata, ma fortemente incentivata”.
Sistemi di premio: pollice su o giù?
“Non è costituzionalmente proibito – la Corte lo ha già detto – ricorrere anche a sistemi di premio che diano una maggioranza in seggi a chi è già arrivato al 40 per cento dei voti. Qui ci sarebbe il vantaggio della garanzia della maggioranza, ma ci sono vari problemi e controindicazioni. Se restano due Camere come normare la possibilità di maggioranze diverse? Cosa fare se non si raggiunge il 40 per cento? Come scegliere i singoli parlamentari, visto che le preferenze farebbero competere in circoscrizioni molto ampie? Se si bloccano i capilista e si lasciano gli altri a concorrere per le preferenze, nei partititi piccoli e medi passerebbero solo i capolista, nei grandi anche gli eletti con preferenze. Una contraddizione non da poco. Non credo tale da determinare un’incostituzionalità, però i costi sarebbero superiori ai vantaggi rispetto all’alternativa dei collegi uninominali a doppio turno”.
E se sorgono dubbi di costituzionalità?
“Qualora vi fossero dubbi di costituzionalità, sappiamo che la Corte accetta cause prima che le leggi elettorali siano applicate e questo è un elemento importante del nostro Stato di diritto, che dovrebbe servire come deterrente”.
Dopo la bocciatura – da parte della Corte costituzionale – di una parte fondamentale della riforma sull’Autonomia differenziata (punto qualificante del programma di governo), a febbraio sono stati eletti i nuovi giudici della Consulta. Nel novero, l’ex consigliere giuridico della premier Meloni (in quota FdI), considerato anche il “padre” del premierato. È ragionevole o insensato temere le mani della destra su un organo che è custode della nostra Costituzione?
“I timori sulla perdita di indipendenza della Corte costituzionale sono sempre stati infondati. I giudici sono 15, vengono da tre fonti di legittimazione diverse (Capo dello Stato, magistrature, Parlamento a tre quinti). L’attuale maggioranza ha potuto proporre solo 2 giudici su 4 e tutti sono stati eletti coi consensi anche dell’altra parte, come si poteva prevedere. Non bisogna cadere nel costituzionalismo ansiogeno che vede pericoli anche dove non ci sono”.
Il 2 giugno del 1946 l’Italia – per la prima volta a suffragio universale – scelse di abbandonare la monarchia. E lo fece con una consultazione storica. Quest’anno, sei giorni dopo tale ricorrenza, il Paese è chiamato a esprimersi su lavoro e cittadinanza con il referendum dell’8-9 giugno. La fa da padrone il tema dell’astensione, con il dibattito sul raggiungimento del quorum. Lei pensa che rinunciare a uno strumento di “democrazia diretta” come il referendum significhi rinunciare alla Carta?
“L’istituto va ripensato alzando le firme a 800 mila e abbassando il quorum: altrimenti è scarsamente utilizzabile in epoca di astensionismo strutturale elevato”.
Cinque quesiti. Quanti Sì e quanti No?
“In questo caso specifico, i quattro quesiti sul lavoro sono scarsamente comprensibili non solo dal punto di vista tecnico ma anche politico perché non sono le classiche proposte che i gruppi di opposizione che hanno perso in Parlamento vogliono portare avanti per dimostrare di essere maggioranza nel Paese, ma sono un attacco che una parte dell’opposizione fa a leggi approvate dal centrosinistra di Governo. Discorso diverso invece per il quesito sulla cittadinanza che va a colpire una legge datata, davvero di un altro secolo. Per questo, voterò un convinto Sì solo a quest’ultimo quesito e invito, insieme ai componenti dell’associazione riformista Libertà Eguale, a valutare caso per caso se votare No o rifiutare la scheda sui 4 quesiti sul lavoro”.