Il mese scorso Donald Trump ha preso di mira la Smithsonian Institution. Attraverso uno dei suoi ormai famigerati post su Truth Social, l’ha tacciata di essere “fuori controllo”, accusandola di concentrarsi su quanto siano “orribili” gli Stati Uniti e, in particolare, su come la schiavitù fosse stata un male, anziché celebrare i successi e lo “splendore” della storia americana.
L’esternazione di The Donald ha fatto seguito a una minacciosa lettera – firmata da Russell Vought, il direttore dell’Office of Management and Budget (l’analogo del ministro del Bilancio di un Paese europeo), e da due assistenti del tycoon – con la quale è stato ingiunto a Lonnie Bunch III, il segretario della Smithsonian Institution, di uniformarsi all’executive order 14253 del 31 marzo, cioè alla direttiva presidenziale che impone agli enti culturali federali di “celebrare l’eccezionalismo americano, cancellare narrazioni divisive o partitiche e ristabilire la fiducia nei valori condivisi”.
Il testo del provvedimento citava come esempio paradigmatico di iniziative che polarizzavano gli statunitensi in gruppi contrapposti la mostra The Shape of Power: Stories of Race and American Sculpture, allestita dall’American Art Museum della Smithsonian Institution, in quanto promuoveva il concetto che “la razza non è una realtà biologica ma una costruzione sociale”.
La Smithsonian Institution
La Smithsonian Institution, fondata dal Congresso nel 1846, è un organismo che gestisce ventuno musei – ubicati principalmente nella capitale, Washington, e negli Stati di New York, Maryland e Virginia – visitati in media da 30 milioni di persone ogni anno.
Nonostante sia formalmente un ente autonomo, di fatto è connessa allo Stato federale. Da un lato, quest’ultimo finanzia approssimativamente i due terzi del suo bilancio annuale di circa 1,25 miliardi di dollari.
Tale situazione rende estremamente allarmante il contenuto della missiva di Vought, soprattutto alla luce del precedente congelamento dei fondi federali per la ricerca destinati a un’università non allineata con l’amministrazione Trump quale Harvard, sebbene il provvedimento ai danni dell’ateneo sia stato poi bloccato da un giudice giovedì scorso.
Dall’altro lato, il consiglio direttivo della Smithsonian Institution è costituito dal presidente della Corte Suprema, dal vicepresidente degli Stati Uniti, da tre senatori e tre deputati e da nove rappresentanti della società civile, che – pur dovendo garantire l’indipendenza dell’ente dalla politica in quanto costituiscono la maggioranza dei membri – sono nominati dal Congresso.
La Smithsonian Institution non è nuova a suscitare controversie. La più accesa scoppiò nel 1994 in merito all’allestimento di una mostra organizzata da un altro dei musei sotto la sua giurisdizione, il National Air and Space Museum di Washington, in vista del cinquantesimo anniversario della conclusione della seconda guerra mondiale.
Al centro dell’esposizione avrebbe dovuto collocato l’appena restaurato Enola Gay, l’aereo che aveva sganciato la bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima. Il progetto originario fu duramente contestato dalle associazioni degli ex combattenti, in particolare dall’American Legion, e da numerosi membri repubblicani del Congresso.
A giudizio dei critici, il percorso espositivo, rappresentando anche le sofferenze delle vittime degli ordigni atomici, sembrava voler mettere in discussione la moralità della decisione di utilizzare questo tipo di armamento e avrebbe potuto sollevare l’ipotesi che gli Stati Uniti si fossero macchiati di crimini di guerra per mera volontà di vendetta nei confronti dei giapponesi, responsabili dell’attacco contro Pearl Harbor e ritenuti “razzialmente inferiori” in quanto non “bianchi”.
Questa lettura andava contro la visione eroica della partecipazione di Washington al secondo conflitto mondiale per difendere la democrazia dal totalitarismo nonché contro l’interpretazione convenzionale e prevalente, secondo cui lo sganciamento delle due atomiche avrebbe avuto lo scopo esclusivo di affrettare la resa di Tokyo e quindi la fine della guerra, risparmiando agli Stati Uniti le ingenti perdite di vite umane che sarebbero invece scaturite da un’occupazione del Giappone attraverso battaglie convenzionali per la conquista di ciascuna isola dell’arcipelago.
La diatriba portò alla cancellazione della mostra originaria, alla sua sostituzione con un’esposizione in tono minore in cui l’impiego degli ordigni atomici e le conseguenze del loro utilizzo restavano in ombra, e alle dimissioni dell’allora segretario della Smithsonian Institution, Ira Michael Heyman, che aveva vanamente cercato di difendere l’autonomia dell’ente dalle pressioni politiche.
Emmett Till
L’attuale polemica di Trump verso la Smithsonian Institution, però, non riguarda solo gli allestimenti dei suoi musei e deve essere situata in una prospettiva più ampia che investe l’intera esperienza degli afroamericani nella storia degli Stati Uniti.
The Donald intende ridimensionare in misura considerevole la portata del ruolo e della presenza dei neri nel passato dell’America. Per esempio, quest’anno cade il settantesimo anniversario del linciaggio di Emmett Till, un afroamericano appena quattordicenne che, il 28 agosto 1955, fu rapito, picchiato, torturato, mutilato e ucciso con un colpo alla testa da due adulti razzisti a Drew, in Mississippi, dopo che una donna bianca lo aveva accusato di averle mancato di rispetto perché le avrebbe fischiato dietro come presunta forma di apprezzamento sessuale.
I responsabili del linciaggio vennero assolti dall’accusa di omicidio e dalle altre imputazioni da una giuria composta esclusivamente da uomini bianchi e Emmett Till è assurto a emblema della lotta degli afroamericani per la pienezza dei diritti civili, grazie anche alla decisione della madre, Mamie Till-Mobley, di far celebrare il funerale del figlio con la bara aperta, in modo che fosse ben visibile il volto del ragazzo sfigurato dalle violenze subite.
All’impegno di Till-Mobley è dedicato il film Till – il coraggio di una madre (Orion Pictures, 2022) della regista afroamericana Chinonye Chukwu, che contribuì a riaccendere i riflettori dell’opinione pubblica su questa vicenda drammatica e uscì nelle sale cinematografiche statunitensi a pochi mesi dall’approvazione dello Emmett Till Anti-Lynching Act, la legge che ha trasformato il linciaggio in un reato federale e ha introdotto aggravanti penali per i crimini commessi per odio razziale.
Così, l’anno successivo, l’amministrazione Biden decise di finanziare l’erezione di un monumento commemorativo dedicato a Emmett Till e a Mamie Till-Mobley. Tuttavia, l’opera – distribuita in tre luoghi diversi: la chiesa di Bronzeville, un sobborgo di Chicago, dove si svolse il funerale; Graball Landing, dove fu rinvenuto il cadavere; e Sumner, dove si svolse il processo – rischia di venire rimossa.
Da un lato, il National Park Service – l’ente federale che sovrintende non solo ai parchi ma anche ai monumenti federali – è tenuto a ottemperare a un’altra disposizione di Trump, l’executive order 14151 del 20 gennaio, che stabilisce la conclusione di tutti i programmi e i progetti volti ad assicurare il rispetto di diversità, eguaglianza e inclusione (DEI).
Dall’altro, i tagli alla spesa federale decisi da The Donald hanno ridotto le risorse a disposizione del National Park Service per la salvaguardia di un monumento che in passato è stato bersaglio di atti vandalici a opera di razzisti.
La parità dei diritti degli afroamericani, di cui Emmett e la madre sono diventati un simbolo loro malgrado, non rientra evidentemente nell’agenda presidenziale.
Celebrare i razzisti, non commemorarne le vittime
Si assiste, pertanto, a un paradosso. Durante il primo mandato di Trump alla Casa Bianca, nell’estate del 2017 e poi ancora nella primavera del 2020, attivisti e associazioni per i diritti dei neri domandarono la rimozione dei monumenti celebrativi dei generali sudisti, che avevano guidato le truppe confederate nella guerra civile per difendere lo schiavismo, e demolirono alcune statue che non erano riusciti a far togliere legalmente da piazze e parchi delle città americane.
Al tempo, Trump condannò tali richieste e gesti, considerandoli uno sfregio alla memoria storica degli Stati Uniti. Non a caso, ai primi di agosto di quest’anno, la sua seconda amministrazione ha deciso il restauro della statua bronzea del generale Albert Pike, eretta nell’area di Judiciary Square a Washington nel 1901 e abbattuta il 19 giugno 2020.
Pur essendo originario di Boston, Pike aveva combattuto nell’esercito confederato e soprattutto, dopo la fine della guerra civile, si era opposto al conferimento del suffragio agli afroamericani, sostenendo che solo la “razza bianca” avesse il diritto di governare gli Stati Uniti. Di contro, Trump è disposto a consentire l’eliminazione del ricordo di Emmett Till e della madre dallo spazio pubblico americano.
Trump e la “bianchezza” degli statunitensi
Secondo Zolan Kanno-Youngs, un giornalista che copre la Casa Bianca per il “New York Times”, Trump starebbe addirittura promuovendo una visione “bianca” degli Stati Uniti che mette in discussione la legittimità della presenza dei neri nella società americana.
A suo dire, per esempio, la militarizzazione della città di Washington da parte del presidente, che ha conferito alla Guardia Nazionale la tutela dell’ordine pubblico e il contenimento delle attività criminali, costituirebbe un’implicita stigmatizzazione dei neri quali individui dal comportamento tendenzialmente violento e delinquenziale, in quanto la maggioranza degli abitanti della capitale è composta proprio da afroamericani.
In effetti, la volontà di Trump di presentare i neri come una sorta di entità estranee agli Stati Uniti per una condotta incompatibile con il sistema di valori dell’americano medio era già emersa nel corso della campagna elettorale del 2024.
Ad esempio, durante l’unico dibattito con la sua sfidante Kamala Harris, The Donald era giunto ad affermare falsamente che i rifugiati haitiani accolti sotto la presidenza di Joe Biden, che sono afrodiscendenti, rapivano cani e gatti per nutrirsi di quelli che per gli statunitensi sono animali domestici.
D’altro canto, gli unici africani di cui Trump incoraggia l’immigrazione negli Stati Uniti sono gli Afrikaners, cioè i discendenti bianchi dei colonizzatori di origine olandese dell’attuale Repubblica del Sudafrica, che The Donald considera perseguitati dal governo di Pretoria per ragioni razziali.
Rimuovere gli afroamericani dalla storia
La volontà di Trump di cancellare i neri dalla storia statunitense emerge anche dal fatto che la sua amministrazione non ha previsto nessuna iniziativa particolare per celebrare il sessantesimo anniversario del Voting Rights Act, frutto di una mobilitazione pluridecennale da parte degli afroamericani e promulgato dal presidente democratico Lyndon B. Johnson il 7 agosto 1965, la legge che ha assicurato ai neri la pienezza dei diritti politici.
Anzi, più di un commentatore considera i piani intrapresi questa estate dal Texas e da altri Stati governati da repubblicani, su esplicito invito del presidente, allo scopo di ridisegnare la mappa dei collegi per l’elezione dei propri membri alla Camera dei Rappresentanti di Washington come la più seria minaccia al Voting Rights Act.
Queste modifiche, infatti, permetterebbero di diminuire il peso dei votanti afroamericani, generalmente schierati con il partito democratico, perché implicano lo smembramento delle attuali circoscrizioni con una maggioranza di residenti neri e il loro inserimento all’interno di distretti con una presenza dominante di elettori bianchi e repubblicani.
L’intento del tycoon di relegare gli afroamericani in un cono d’ombra del passato può essere colto anche nel boicottaggio dei tentativi di conferire maggiore visibilità ad alcune personalità di questa minoranza.
Per esempio, dopo il suo ingresso alla Casa Bianca nel 2017, The Donald congelò una direttiva di Jack Lew, il segretario del dipartimento del Tesoro del suo predecessore democratico Barack Obama, che stabiliva di sostituire sul recto delle banconote da venti dollari l’effige del presidente Andrew Jackson (1829-1837), un self-made man che si era avvalso dello sfruttamento di schiavi nella propria piantagione, con il ritratto di Harriet Tubman (1822-1913).
Quest’ultima era una schiava nera fuggiasca che, dopo essersi messa in salvo nel 1849 in Pennsylvania, uno Stato dove lo schiavismo era vietato, era tornata più volte nel Sud per far scappare numerosi schiavi.
The 1619 Project
La questione di Tubman attesta che la politica trumpiana di oscurare il rilievo dei neri nelle vicende degli Stati Uniti si era già manifestata all’inizio del primo mandato del tycoon. Tale proposito si è accentuato in risposta a The 1619 Project.
All’agosto del 1619 si fa risalire per convenzione l’arrivo dei primi africani deportati in America settentrionale, in quella che allora era la colonia inglese della Virginia. Si trattava di angolani che l’equipaggio di un veliero corsaro olandese barattò con riparazioni alla nave e viveri.
In occasione del quattrocentesimo anniversario di questo episodio, nel 2019, la giornalista Nikole Hannah-Jones si fece promotrice di un progetto di storiografia divulgativa, patrocinato dal “New York Times” e dal titolo evocativo di The 1619 Project, per sostenere che l’anno centrale per la nascita degli Stati Uniti non sarebbe stato il 1776, quando fu approvata la Dichiarazione d’indipendenza, ma appunto il 1619, quando furono fatti sbarcare i primi africani, appena dodici anni dopo la fondazione del iniziale insediamento inglese permanente in quelli che sarebbero divenuti gli Stati Uniti.
Oltre a sottolineare l’importanza della schiavitù per lo sviluppo dell’economia americana, l’argomentazione di Hannah-Jones si basava sul presupposto che gli ideali fondativi enunciati nel preambolo della Dichiarazione d’indipendenza (l’eguaglianza nonché la rivendicazione del diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità) per motivare la costituzione degli Stati Uniti in una nazione sovrana nel 1776 sarebbero rimasti lettera morta per decenni perché l’esistenza della schiavitù e la discriminazione dei neri erano incompatibile con tali principi.
Solo l’impegno degli afroamericani per l’abolizione dello schiavismo e per il pieno godimento dei diritti civili e politici avrebbe permesso agli Stati Uniti di vivere all’altezza dei propri valori. Pertanto, non sarebbe possibile prescindere dal ruolo svolto dai neri per l’effettiva realizzazione della democrazia americana, una constatazione che renderebbe imprescindibile, e quindi legittimerebbe, la presenza dei membri di questa minoranza nella storia e nella società americane.
The 1619 Project non era privo di tesi inverosimili, prima fra tutte l’affermazione – destituita di qualsiasi riscontro documentario e contestata quasi universalmente dagli storici accademici che non erano alla ricerca di ipotesi sensazionalistiche – che i coloni nordamericani si sarebbero resi indipendenti dalla madrepatria per il timore che la Gran Bretagna intendesse abrogare la schiavitù nei suoi possedimenti dell’America settentrionale.
Nondimeno, con la sua accentuazione della centralità degli afroamericani nella storia degli Stati Uniti, The 1619 Project galvanizzò l’orgoglio razziale di molti intellettuali neri che sino a quel momento avevano finito per riconoscersi nella metafora impiegata dallo scrittore Ralph Ellison per esprimere l’emarginazione e i meccanismi di esclusione degli afroamericani dalla società statunitense dominata dai bianchi: il nero era un Invisible Man, un uomo invisibile, come recitava il titolo dell’unico romanzo che aveva pubblicato in vita nel 1952.
Su tale linea di fierezza per il contributo degli afroamericani alla storia del proprio Paese, per esempio, dopo l’elezione di Biden alla Casa Bianca nel 2020, un altro romanziere nero, Percival Everett, sostenne che erano stati ancora una volta i membri di questa minoranza a salvaguardare la democrazia statunitense perché il loro voto era stato decisivo in Stati come la Georgia, il Michigan e il Wisconsin per impedire la conferma di Trump alla Casa Bianca, evitando così quella prevedibile degenerazione delle istituzioni in senso autoritario che sarebbe scaturita da un secondo mandato del tycoon.
The 1776 Report
Al tempo delle dichiarazioni di Percival Everett Trump aveva già cercato di correre ai rimedi per disinnescare quello che riteneva un concentrato di bugie e una “propaganda tossica”, ricollocando gli statunitensi di origine europea al centro della vicenda storica della nazione e ricacciando gli afroamericani ai margini.
Il 2 novembre 2020, alla vigilia delle elezioni presidenziali, The Donald aveva nominato una commissione di diciotto storici con il mandato di preparare una ricostruzione “patriottica” della storia americana che smentisse la teoria che gli Stati Uniti non erano “una nazione eccezionale bensì una nazione malvagia”.
L’esito dei lavori di questo comitato fu The 1776 Report, un documento diffuso il 18 gennaio 2021, due giorni prima dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca. Il testo non si limitava a sottolineare come la democrazia statunitense fosse scaturita esclusivamente dalla proiezione transatlantica del pensiero illuministico europeo.
Indicava anche in John C. Calhoun un modello positivo di nazionalismo, mentre questo esponente politico, vicepresidente degli Stati Uniti dal 1825 al 1832 e senatore della Carolina del Sud dal 1832 al 1843, era stato uno dei più tenaci difensori dello schiavismo, di cui aveva esaltato i presunti benefici addirittura per gli schiavi, in base a una concezione paternalistica per la quale gli afroamericani erano individui primitivi che necessitavano di un tutore che provvedesse a loro.
Inoltre, criticava alcune conquiste del movimento per i diritti civili degli afroamericani, uscendosene in alcune affermazioni mistificatorie come quella secondo cui il leader nero Martin Luther King Jr. avrebbe disapprovato i programmi di affirmative action, cioè la politica di riservare una quota minima nelle assunzioni e nell’accesso all’istruzione superiore ai membri delle minoranze etno-razziali come forma di compensazione per le discriminazioni subite in passato.
La critical race theory
The 1776 Report veniva anche incontro alle richieste di alcuni bianchi reazionari che contestavano l’insegnamento della critical race theory – cioè la tesi che, a prescindere dai pregiudizi individuali, la storia degli Stati Uniti sarebbe stata contraddistinta da un razzismo sistemico non ancora del tutto superato – e attribuivano a questa ideologia il risorgere – anche violento – delle tensioni razziali che erano tornate a lacerare il Paese nel 2020.
I contrasti erano, invece, riemersi in seguito all’uccisione di George Floyd, un afroamericano disarmato soffocato da un agente di polizia bianco che gli aveva premuto il collo con un ginocchio per oltre nove minuti mentre lo arrestava per il sospetto che avesse utilizzato una banconota da venti dollari contraffatta nel fare un acquisto. Proprio la brutalità delle forze dell’ordine nei confronti dei neri era uno degli elementi a sostegno della critical race theory.
Tuttavia, incurante dell’evidenza dei fatti, per assecondare i suoi elettori più retrogradi, nel 2022 un altro esponente del partito repubblicano, il governatore della Florida Ron DeSantis, emanò un provvedimento per mettere al bando la critical race theory dalle scuole pubbliche dello Stato.
Le guerre culturali
Trump non sta cercando solo di imporre la sua narrativa in relazione al periodo successivo al proprio ingresso in politica, per esempio ritraendo come patrioti i golpisti mancati che il 6 gennaio 2021 avevano assaltato la sede del Congresso nel vano tentativo di impedire la certificazione ufficiale della vittoria di Biden nelle presidenziali del 2020.
The Donald vuole anche riscrivere l’intera storia degli Stati Uniti. Il suo sforzo in tale direzione rappresenta il capitolo più recente di quelle che, già all’alba dell’ultimo decennio del Novecento, il sociologo James Davison Hunter aveva chiamato “guerre culturali”, cioè lo scontro tra un orientamento conservatore e una tendenza progressista per stabilire cosa siano gli Stati Uniti e chi siano gli americani (Culture Wars. The Struggle to Define America, New York, Basic Books, 1991).
A distanza di quasi un terzo di secolo, grazie alle politiche di Trump, la prospettiva conservatrice si è radicalizzata e ha alimentato una visione reazionaria per la quale gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare il loro spirito inclusivo per tornare a essere una nazione dominata dai bianchi, con gli afroamericani lasciati ai margini.
Minimizzare il ruolo dei neri negli Stati Uniti fino al punto da mettere in discussione la legittimità della loro presenza nel Paese è un modo per contribuire al raggiungimento di tale obiettivo.
Il prossimo anno, le celebrazioni del duecentocinquantesimo della Dichiarazione d’indipendenza – che ovviamente riporteranno l’attenzione sul 1776 quale momento centrale nella formazione degli Stati Uniti – offriranno a Trump un’ulteriore opportunità per attuare il suo progetto.
Non a caso, in vista di tale occasione, la Casa Bianca ha già programmato un’ispezione in otto musei gestiti dalla Smithsonian Institution, tra cui il National Museum of African American History and Culture, il National Museum of American History e ovviamente l’American Art Museum.
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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).