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Sulcis e Alcoa: basta sussidi e basta inquinamento, è ora di progettare uno sviluppo diverso

Il polo sardo dell’alluminio non è economicamente sostenibile e inquina molto: è ora di cambiare registro – Basta assistenza e soluzioni tampone, bisogna pensare a uno sviluppo completamente diverso e fatto di turismo, di risanamento ambientale e di riconversione industriale

Sulcis e Alcoa: basta sussidi e basta inquinamento, è ora di progettare uno sviluppo diverso

Era il maggio 1994, quando Silvio Berlusconi, che si faceva riprendere in diretta mentre si dirigeva a Palazzo Chigi a prendere possesso della prima Presidenza del Consiglio della Seconda Repubblica, fu attirato da una delegazione di minatori del Sulcis che lo contestavano: il Presidente-in-quell’occasione-minatore si rivolse a loro sorridente e disse “Ci penso io”. Nel 1997 l’ultima miniera del Sulcis, quella di zinco di Masua, chiudeva. Restavano aperti, ma non produttivi, due siti della Carbosulcis – tra cui quello oggi occupato da quaranta minatori – in attesa di una vagheggiato impianto di gassificazione del pessimo, ed inutilizzabile, carbone del Sulcis, che permettesse di usarlo per alimentare la produzione elettrica. Ma Berlusconi non era il primo scontrarsi con il problema delle miniere del Sulcis. E’ dagli anni ’60 che la politica italiana si confronta con l’eredità di un passato minerario di rispetto, ma ormai condannato dall’esaurimento dei filoni di zinco, manganese, ferro, piombo, che avevano alimentato il boom minerario della zona nella seconda metà  dell’ottocento, e del sogno (o incubo?) autarchico fascista, che nel 1930 aveva portato alla creazione delle nuove città, architettonicamente straordinarie, di Carbonia, Cortoghiana, Bacu Abis. Senza riuscire, ovviamente, a trovare la pietra filosofale che potesse trasformare cattivo carbone in oro, ma riuscendo a creare illusioni alimentate da soldi pubblici.

La nascita dell’Eurallumina e del polo dell’alluminio negli anni ’60 è infatti il risultato del sogno di utilizzare il carbone del Sulcis per sviluppare una produzione intensiva di energia, che avrebbe anche consentito di riconvertire nell’occupazione industriale i minatori. Una scelta peculiare: proprio perché la produzione di alluminio primario è molto intensiva di energia, gli impianti di alluminio tendono a localizzarsi là dove vi è grande abbondanza di energia (come in Islanda o negli Emirati Arabi) o vicino alle zone di produzione del minerale (come in Australia, in Brasile o in Cina). Nel Sulcis non c’è minerale e ben presto si scoprì che l’uso del carbone del Sulcis aveva costi elevatissimi, per le sue caratteristiche inquinanti e che quindi per alimentare gli impianti energetici il carbone bisognava importarlo. Da allora la produzione sarda di alluminio è stata sussidiata attraverso tariffe agevolatissime: tanto agevolate che la Commissione Europea ha ritenuto che non fossero compatibili con la concorrenza all’interno dell’Unione Europea. E senza sussidi le imprese del polo dell’alluminio sardo non sono in grado di operare. Di qui la chiusura, almeno temporanea, degli impianti. Non prima però che il polo dell’alluminio avesse dato luogo a una situazione pesantissima di inquinamento ambientale, a causa dell’immissione di scarichi nell’aria e nell’acqua, e di devastazione del paesaggio, non troppo diverse di quelle dell’ILVA di Taranto, anche se meno visibili (non ci sono qui le polveri). I tassi di diffusione di leucemia e altri tumori nella zona intorno a Porto Vesme sono, secondo le associazioni ambientali, tra i più alti in Europa. I fumi degli impianti minacciano i paesi intorno e zone turistiche, agricole e di itticoltura in sviluppo. Anche se è bene chiarire che, da questo punto di vista, la situazione del polo di Porto Vesme è molto diversa da quella dell’ILVA: simili i problemi ambientali, ma un bilancio economico di partenza che già in partenza, senza considerare costi ambientali e alla salute, è nel caso sardo del tutto insostenibile.

E’ bene ricordare questa storia, nel considerare le difficili scelte di fronte a cui il governo si trova rispetto al Sulcis e all’Alcoa/Eurallumina. La richiesta degli uomini e donne coraggiosi, che hanno destato la solidarietà del Presidente della Repubblica e di molta opinione pubblica, orgogliosi del proprio lavoro e disperati all’idea che una chiusura definitiva degli impianti condannerebbe il Sulcis al deserto economico sociale, è in realtà di tornare a una situazione di economia assistita che non ha prospettive senza un permanente intervento pubblico. Non diversa è la richiesta di chi prospetta presunte priorità strategiche della produzione di alluminio e paventa che l’industria italiana diventi ancor più dipendente dalle importazioni; anche se la situazione italiana non è molto diversa da quella degli altri paesi europei: per le ragioni a cui abbiamo accennato, la produzione di alluminio si è concentrata nei paesi ricchi di minerale o di energia, come i paesi arabi, e l’Europa contribuisce solo per il dieci per cento alla produzione mondiale, pur essendo grande utilizzatrice.

Ma è possibile una politica di sviluppo del Sulcis che sia auto sostenibile? L’impressione è che lo sia, se si basa sulle sue risorse naturali e ambientali, che non sono poche, e della sua storia. Il Parco Geominerario del Sulcis, monumento alla storia mineraria della zona,  è stato il primo del genere nel mondo ed è tra i siti protetti dell’Unesco: eppure il suo sviluppo è rallentato dall’inerzia della regione nel consentire la riforma del consorzio che lo gestisce: iniziative private importanti che ne avrebbero favorito l’utilizzo commerciale sono state scoraggiate. L’attività agricola della zona appare promettente, in particolare quella vinicola e della frutta. Il potenziale turistico è enorme, poiché si tratta di una zona fortunatamente ancora largamente indenne da eccessiva speculazione edilizia: villaggi già minerari come Buggerru e Nebida hanno saputo riconvertirsi in centri turistici e complementano centri già sviluppati come quelli delle isole di Sant’Antioco e San Pietro. Spiagge assai ben tutelate dalle amministrazioni locali consentono di sperare in ulteriore sviluppi, magari non invasivi come altrove in Sardegna. Infine, lo stesso capitale umano dei lavoratori delle industrie metallurgiche e minerarie, se riqualificato, potrebbe rappresentare il supporto per lo sviluppo di un’attività industriale più compatibile con il contesto ambientale. Si tratta di fattori che potrebbero essere sufficienti ad attivare un ciclo di crescita auto sostenuto: anche perché, per fortuna, il Sulcis benché povero non è fittamente popolato e i numeri sono piccoli. Come molti commentatori sulcitani (li trovate nei blog) notano, il limite è piuttosto dato dalla disabitudine locale a sfruttare queste risorse: conseguenza prima di una tradizione di pastorizia e poi dell’eterodirezione delle società minerarie e quindi delle partecipazioni statali nonchè dalla diffidenza nei confronti di iniziative esterne.

Il problema che si prospetta davanti al governo è allora quello, purtroppo comune alla politica italiana del dopoguerra, di scegliere tra una soluzione tampone che allievi le tensioni presenti attraverso ulteriori sussidi a carico delle generazioni future, e di individuare canali e metodi, e progetti, che attivino iniziative locali e ne attirino dal di fuori, in modo da disegnare un nuovo percorso allo sviluppo della regione, naturalmente fornendo i necessari ammortizzatori, e le condizioni per riqualificarsi, ai lavoratori che sono colpiti dalla crisi presente e avviando processi di risanamento ambientale e di riconversione industriale. Tenendo presente che un tale percorso richiede responsabilità e competenze che non sono solo di chi si occupa di Industria e Miniere, ma anche di Ambiente, Agricoltura, Turismo e Coesione Sociale. 

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