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Romney punta sull’economia, ma per Obama la parola d’ordine è “continuità”

Nessuno dei due candidati sembra avere in mano la carta vincente per risollevare il Pil. Ma secondo un sondaggio ABC gli americani hanno più fiducia nel piano economico di Romney, nonostante la sua fumosità e i disastri repubblicani del recente passato.

Romney punta sull’economia, ma per Obama la parola d’ordine è “continuità”

Completare la missione, portare a termine quanto deliberato ma non ancora attuato. Questo è il vero programma di Barack Obama per il secondo mandato, ma si tratta di un programma-ombra, poco spendibile in campagna elettorale. In un paese dove tutto si fa spettacolo, una propaganda basata sul realistico richiamo alla continuità sarebbe fallimentare. Poco competitiva rispetto alle cannonate dei rampanti repubblicani del Tea Party, “silenziati” da un Romney che ha tentato, con fatica, di dipingersi come il candidato dal volto umano di cui i conservatori hanno bisogno per abbattere il sogno obamiano. Una maschera che però nasconde, secondo molti osservatori, sorprese sgradite per lavoratori e indigenti.

Uno stretto collaboratore, poche settimane fa, esortava il primo cittadino a puntare di più sui successi passati, a rivelare dunque la realtà dei fatti: è vero, Obama non ha nel cassetto un piano di rilancio da sventolare sui media. Per un semplice ma valido motivo: i pilastri su cui si è basata la discontinuità con l’era Bush, ovvero la riforma sanitaria e del sistema finanziario, sono ancora in gran parte inattuati. Con estrema fatica e capacità mediatoria Obama è riuscito a farli passare indenni per le forche caudine del Congresso repubblicano. Essenziale, finora, è stata la salda maggioranza democratica al Senato. Senza la quale il Grand Old Party avrebbe smontato pezzo su pezzo sia l’Obamacare che il Dodd-Frank Act, un muro regolatorio da mille e passa pagine additato da molte parti (anche bipartisan) come un pasticcio burocratizzante impossibile da applicare nel mondo reale. Difficile, d’altro canto, porre rimedio alla capillare metastatizzazione della finanza cattiva con pochi tratti di penna.

Quanto al programma di Romney, i suoi cavalli di battaglia vincono negli spot ma sono zoppi se analizzati con attenzione, soprattutto in materia fiscale: il piano è ridurre le tasse ai ricchi, coprendo il buco con tagli lineari ad agevolazioni e detrazioni fiscali, nonchè riduzioni di welfare e sussidi. Ma i dettagli, finora, non sono pervenuti. Nemmeno il fantomatico piano da 12 milioni di posti di lavoro è stato illustrato a dovere. Quanto a immigrazione, aborto, diritti omosessuali, è silenzio totale, anche se il silenzio in questo caso è prudenziale: la questione economica è centrale e non sarebbe opportuno rischiare troppo su capitoli considerati – oggi – secondari.

Obama, al contrario, nonostante una campagna che si ricorderà soprattutto per le gaffe di Romney e la marginalità dell’Europa, ha mostrato consapevolezza maggiore di un problema che – volente o nolente – il prossimo capo dello Stato dovrà affrontare: il deficit. Il Presidente vorrebbe tagliarlo di 3800 miliardi nell’arco di dieci anni, aumentando l’aliquota marginale sui redditi oltre 250mila dollari. Un’attenzione ai conti che non gli viene perdonata dai “liberal”, che invocano al contrario più intervento pubblico. A guardare i numeri, non hanno tutti i torti. Il debito federale è al 105% del Pil ma l’attrattività delle obbligazioni federali è intatta, garantita dall’appeal – ancora forte – del dollaro come riserva di valore mondiale. Al punto che il titolo decennale è quotato oggi all’1,75%, mentre i rendimenti sui due anni sono allo 0,30%: su entrambe le scadenze, negativi in termini reali. E il gigante statunitense non soffre dei divari di competitività, oltre che di credibilità politica, che separano l’europeriferia dal nucleo mitteleuropeo. E che hanno finora bloccato sul nascere qualsiasi velleità di rilancio, con ricette keynesiane, dell’economia continentale.

Nonostante la maggiore chiarezza (e coerenza) di Obama, il dato più sorprendente emerso in questi giorni è che in materia economica Romney riscuote più consensi: un sondaggio Abc News gli conferisce addirittura dieci punti di stacco sul rivale. Ma si tratta, secondo molti economisti, di un vantaggio immeritato: i conservatori rinfacciano al Presidente una ripresa asfittica, ma allo stesso tempo sono stati proprio loro i primi a mettere i bastoni tra le ruote alla crescita: ad esempio bocciando perentoriamente l’American Jobs Act o sbattendo la porta al Congresso ogni volta che, dopo le elezioni di midterm, si sentisse odore di programmi di rilancio para-keynesiani. E oggi il Paese si trova a dover affrontare il “precipizio fiscale” solo per un vezzo ideologico del Tea Party.

Nonostante un Pil che è tornato, nel terzo trimestre, a crescere al 2%, e un tasso di disoccupazione crollato al 7,8%, i conservatori continuano ad obiettare che la “jobless recovery” è causata dall’incertezza, figlia delle politiche presidenziali. Alla Casa Bianca non si perdona, in particolar modo, l’iniezione da 800 miliardi di dollari, il cosiddetto “American Recovery and Reinvestment Act” del 2009, un protocollo misto tra spesa infrastrutturale, sussidi e sgravi fiscali che – secondo il falco Paul Ryan – ha avuto effetti limitati, fallendo nel far rimbalzare il tasso di occupazione e di crescita del prodotto. Ma secondo la maggior parte degli economisti, la crescita ha continuato a stentare perchè, al contrario, vi sarebbe stato bisogno di un piano molto più robusto da affiancare alla politica monetaria ultraespansiva della Federal Reserve.

In ogni caso, l'”ARRA” ha probabilmente incentivato la creazione di almeno tre milioni di posti di lavoro. In assenza del piano, invece, se ne sarebbero persi anche altri sei, oltre a quelli bruciati dall’implosione della bolla immobiliare. C’è da fare, poi, un’altra riflessione: la sbornia da debito privato va ancora smaltita, e prima che le famiglie abbiano portato a compimento un lungo ma necessario processo di “deleveraging”, di tempo ancora dovrà passarne. E non è affatto detto che, in futuro, il livello dei consumi privati possa tornare, sostenibilmente, ai fasti degli anni pre-crisi.

Nemmeno i trader di Wall Street e i Ceo delle grandi aziende credono alla favola dell’incertezza che i repubblicani raccontano. Nondimeno appoggiano Romney, non tanto per le sue dubbie e incerte ricette economiche, quanto per fiera opposizione alle tasse che Obama farebbe loro pagare, per risanare i conti federali salvando al contempo il welfare e la riforma sanitaria, senza la quale oltre trenta milioni di americani rimarrebbero senza copertura.

Dopo tutto, come ricordano Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart in “Questa volta è diverso”, dopo una crisi finanziaria passano in media sette anni di calvario prima di recuperare il terreno perduto.
Gli Stati Uniti sono, certamente, a metà dell’opera, ma i “democrats” temono che la controriforma di Romney piombi di nuovo il Paese nell’incertezza vera, preludio a un nuovo bagno nella recessione.

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