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Referendum Atac, Magi: “Votare Sì non significa privatizzare”

INTERVISTA A RICCARDO MAGI, deputato dei Radicali e promotore del referendum Atac dell’11 novembre a Roma – “Liberalizzare il servizio del trasporto pubblico non significa privatizzarlo e non vogliamo che il costo del biglietto aumenti. Andando a votare si dà un segnale di discontinuità alla giunta Raggi e alla politica nazionale” – VIDEO: COME SI VOTA.

Referendum Atac, Magi: “Votare Sì non significa privatizzare”

“Perché di fronte a un disastro così evidente non si fa niente?” Se lo è chiesto Riccardo Magi, deputato del partito Radicale e promotore con il comitato “Mobilitiamo Roma” del referendum che si terrà nella Capitale domenica 11 novembre sulla messa a gara del servizio di trasporto.

Il trasporto pubblico capitolino è oggi gestito da Atac, azienda controllata al 100% dal Comune di Roma con un 1,3 miliardi di debiti, per la quale l’amministrazione guidata da Virginia Raggi ha richiesto e ottenuto la procedura di concordato preventivo, considerata l’unica via per evitare il fallimento. “Oggi il modo in cui viene gestita la società però mira solo a tenerla in piedi non a migliorare il servizio”, spiega Magi. Un servizio che spesso negli ultimi mesi è stato al centro delle polemiche a causa di autobus andati in fiamme, corse saltate, mezzi vetusti e soggetti a scarsa manutenzione.

Secondo i fautori del Sì c’è un solo modo per risolvere il caos che contraddistingue da anni il trasporto locale di Roma ed è quello di mettere a gara il servizio e favorire parallelamente l’apertura a forme di trasporto pubblico collettivo non di linea. Sono questi, d’altronde, i due quesiti cui i cittadini domenica saranno chiamati a rispondere. 

A pesare sull’esito della consultazione però non ci saranno solo le eventuali risposte dei romani – che dovranno scegliere tra il Sì e il No – ma anche l’affluenza: meno persone andranno a votare più facile sarà ignorare il risultato di questo referendum.

FIRSTonline ha chiesto a Riccardo Magi di approfondire le “ragioni del Sì” e soprattutto di rispondere a quelle che sembrano essere le preoccupazioni dei cittadini sull’esito del voto. 

Onorevole Magi, cosa vi ha spinto a promuovere questo referendum?

“Ci siamo posti una domanda sul trasporto pubblico: perché di fronte a un disastro così evidente non si fa niente? Un trasporto pubblico che non funziona in una metropoli ha un impatto devastante sulla qualità della vita dei cittadini e comporta anche una serie innumerevole di conseguenze. Roma è città poco attrattiva per le attività produttive, una città paralizzata, una città in cui si impiegano ore per fare qualsiasi cosa, per non parlare dell’inquinamento e della qualità dell’aria che respiriamo. L’anno scorso abbiamo avuto di nuovo il record di incidenti stradali.

Tutto questo fa apparire il vivere a Roma come un sacrificio, a meno che non si viva in quelle poche zone privilegiate servite dalla metropolitana.

Con questo referendum noi vogliamo aggredire la parte gestionale del problema, che è poi quella principale, il modo con cui il Comune affida il servizio. Tralasciando la situazione finanziaria di Atac, il punto è che l’azienda non rispetta il contratto di servizio. E lo fa in maniera reiterata. Di fronte a questa realtà però l’amministrazione comunale non fa nulla. O meglio, nel momento in cui fa qualcosa, in cui applica delle penali per esempio, queste non hanno alcun effetto perché evidentemente per il Comune applicare delle penali ad Atac significa applicarle a se stesso. Ciò nonostante si pensa che l’affidamento in house sia il modo più efficiente e più economico per portare avanti il servizio.

Noi di questa realtà non incolpiamo solo l’amministrazione attuale. È evidente che la situazione in cui si trova Atac, che per certi versi è irrecuperabile, è stata possibile solo a causa di un lassismo durato per molti anni. Però bisogna ammettere che il modo in cui viene gestita l’azienda oggi mira solo a mantenere in piedi la struttura, non a fornire un servizio. E questo, come cittadini, ci fa incavolare”.

Molti però vedono in questo referendum solo una via che porterà alla privatizzazione del servizio di trasporto pubblico locale con conseguente aumento dei prezzi del biglietto. Voi invece sostenete di puntare sulla liberalizzazione. C’è davvero una differenza?

“Certo, è tecnicamente una liberalizzazione perché la privatizzazione riguarda la natura di un ente. Con questo referendum noi non ci occupiamo dell’azienda, pubblica o privata che sia, che deve gestire il servizio, ma del modo in cui il Comune lo affida.

Attualmente il servizio viene affidato in house, cioè il Comune lo affida a un’azienda che controlla al 100 per cento. Noi vogliamo che invece lo affidi tramite una gara a cui potrà partecipare chiunque e quindi soggetti privati, ma anche soggetti pubblici”.

Quindi paradossalmente potrebbe partecipare anche Atac?

“Sì, potrebbe partecipare anche Atac, ma dopo essersi risanata e ristrutturata completamente. Oppure Atac potrebbe diventare l’agenzia del Comune che controlla chi vince la gara, l’ente che ha il compito di effettuare la programmazione e il controllo del servizio. Anche per questo motivo si tratta a tutti gli effetti di una liberalizzazione e non di una privatizzazione.

Noi crediamo che ciò che deve stare a cuore ai cittadini sia la salvaguardia delle funzioni pubbliche. Le funzioni pubbliche non riguardano la proprietà dell’azienda, ma il rispetto di ciò che prevede il contratto di servizio. Oggi questo con Atac non succede e mi dispiace che tutti coloro che si preoccupano della privatizzazione non tengano in considerazione il fatto che un’azienda pubblica al 100 per cento scrive nel suo piano industriale che non farà il numero di chilometri che invece dovrebbe fare in base al contratto di servizio”. 

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Come le chiedevo prima, a preoccupare gli utenti è anche il possibile aumento del prezzo dei biglietti…

“Lo dico subito: noi vogliamo che il prezzo venga mantenuto basso e che siano previste agevolazioni nei confronti di determinate categorie di cittadini.

Premesso questo, ciò che in pochi sanno è che oggi il costo per viaggiare su bus, metro e treni non è di un euro e cinquanta, vale a dire non corrisponde al solo prezzo del biglietto, ma arriva addirittura a 6-7 euro per singola corsa. Questo significa che all’euro e cinquanta che paghiamo ogni volta che compriamo un biglietto dobbiamo aggiungerne altri 5 che equivalgono alla parte del costo che viene scaricata sulla fiscalità generale tramite le tasse. Alla fine dell’anno per avere un servizio che non funziona ognuno di noi versa circa 160 euro.

Per quanto ci riguarda, anche nel caso in cui la gara fosse vinta da un’azienda privata, Sarà comunque il Comune a decidere sia il prezzo del biglietto che l’ammontare dei soldi pubblici da versare. Quindi sarà ancora il Comune a scegliere l’importo”.

In concreto, se dovesse vincere il Sì, cosa succederebbe a Roma? Quali saranno i cambiamenti?

“Arriverebbe un segnale molto forte di discontinuità, un segnale politico lanciato dal basso, popolare, rispetto ad un contesto paralizzato e molto fragile come quello della Capitale. La giunta Raggi, che è ormai arrivata a metà mandato continua ad incolpare le amministrazioni precedenti per tutto ciò che non va a Roma. Noi siamo tra quelli che hanno davvero incolpato le amministrazioni precedenti per gli episodi di malgoverno e per l’incapacità di governare questa città. È anche vero però che a due anni e mezzo dall’elezione di questa giunta si dovrebbero cominciare a vedere degli effetti positivi, dovrebbe essere chiaro che l’amministrazione ha imboccato la strada giusta che porterà a delle vere riforme e invece ciò che si vede è solo la paralisi.

Tornando al merito della domanda, se vince il Sì c’è un’indicazione chiara della volontà dei cittadini di riformare il modello di erogazione del servizio di trasporto pubblico. Voglio sottolineare anche che per noi la vera sfida è quella della partecipazione. Noi siamo abbastanza fiduciosi che vinca il Sì, il punto è quante persone andranno a votare”.

A proposito di affluenza, il quorum c’è oppure no?

“Il quorum è un altro giallo perché la giunta Raggi è riuscita a creare confusione anche sulle regole, cambiandole in corsa. Per chi non lo sapesse, lo scorso gennaio, nello stesso giorno in cui è stato indetto il referendum per la prima data che aveva scelto la sindaca, quella di giugno (poi rimandata a causa delle elezioni nei Municipi, ndr.), è stato modificato lo Statuto di Roma Capitale eliminando il quorum dal referendum. Quindi secondo noi il quorum non c’è perché si applica il nuovo Statuto. Secondo l’interpretazione che però dà il Comune questo dovrebbe essere l’ultimo referendum della storia con il quorum. Dopo il nostro la soglia minima non ci sarà più.

Questa cosa fa sorridere molte persone, ma in realtà rappresenta solo uno dei tanti ostacoli che sono stati posti alla partecipazione popolare. Già al momento della raccolta delle firme, quando chiedemmo alla sindaca Raggi di delegare dei funzionari comunali per l’autentica delle firme, lei ci rispose di pagarci da soli gli autenticatori. Così abbiamo fatto, sostenendo il costo con l’autofinanziamento. Successivamente all’indizione del referendum è stato creato il caos sul quorum di cui abbiamo appena parlato. A tutto questo va aggiunta la mancanza di informazione ai cittadini. Ancora oggi molti non sanno che domenica si va a votare, chi lo sa non sa dove può farlo e via dicendo”.

Mi sta dicendo che il Comune non ha fatto abbastanza per informare i cittadini?

“In questa situazione c’è una responsabilità del Comune, perché la sindaca non si è comportata come un sindaco che informa i suoi cittadini, al di là di come poi la pensino. I cittadini possono decidere di votare Sì o votare No, ma devono essere bene informati dall’amministrazione. Devono sapere che l’11 novembre c’è un referendum, che l’oggetto di questo referendum è il trasporto pubblico locale e che i quesiti riguardano la messa a gara del servizio e la sua apertura a forme di trasporto pubblico collettivo non di linea”.

Questo non è stato fatto, secondo lei?

“La sindaca si è comportata come un comitato per l’astensione, come i comitati anti referendari per eccellenza, quelli che vogliono far fallire una consultazione non informando le persone o dicendo di non andare a votare”.

La sindaca Raggi però non si è espressa ufficialmente a favore del Sì o del No…

“In realtà la sua posizione è stata chiara fin dall’inizio perché nel momento in cui noi ci occupavamo della raccolta firme la sindaca Raggi si era espressa dicendo ‘i cittadini hanno già votato per questo referendum quando hanno votato per me’. Dichiarazioni che non rappresentano proprio il massimo dell’espressione e del sentimento referendario, soprattutto se pronunciate da chi ci ricorda tutti i giorni di essere a favore della democrazia diretta e della partecipazione dei cittadini”.

Torniamo alle previsioni. In caso di vittoria del Sì e con un’affluenza alta, la Giunta potrebbe ignorare il risultato di questa consultazione? Dal punto di vista legislativo può farlo, dato che si tratta di un referendum consultivo, ma politicamente?

“Secondo noi no, sarebbe una cosa gravissima. È evidente che se vince il Sì i cittadini si aspettano una risposta da parte di chi governa in questo momento. Tra l’altro iniziare a preparare una gara come quella che vogliamo noi richiede del tempo, quindi nel frattempo il servizio andrebbe avanti così com’è, ma almeno i cittadini si troveranno davanti ad una speranza di miglioramento che oggi, date le condizioni di Atac, non c’è”.

Anche la politica nazionale dovrebbe tenerlo in considerazione? Lei prima parlava di segnali, sarebbe un segnale anche per i livelli più alti?

“Assolutamente sì. Noi pensiamo che questa sia una partita nazionale. È un referendum che sta al centro dell’interesse politico nazionale, non solo perché si tratta della Capitale, ma perché pone un tema importante, quello del rapporto tra pubblico e privato, in un momento in cui ci troviamo di fronte a un Governo che invece vorrebbe rinazionalizzare tutto. L’Alitalia può essere solo uno dei tanti esempi di questa volontà. Ciò che il Governo non capisce è che il punto non dovrebbe essere nazionalizzare o no le aziende. Il punto è la capacità del pubblico di controllare e di regolamentare i settori economici, non quello di svolgere direttamente dei compiti. Anche perché quando li svolge spesso e volentieri le aziende si trasformano in carrozzoni clientelari e a rimetterci sono sempre i cittadini, sia in termini di costi che di qualità del servizio”.

 

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