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Referendum 8-9 giugno sul Jobs Act e altri tre quesiti sul lavoro: ecco perché rischia di diventare un autogol

Il referendum dell’8-9 giugno mira a smantellare norme chiave del Jobs Act e rafforzare tutele, ma rischia di penalizzare piccole imprese, contratti a termine e appalti. Sul fronte cittadinanza, si propone di dimezzare i tempi per diventare italiani, con grandi impatti sociali e demografici

Referendum 8-9 giugno sul Jobs Act e altri tre quesiti sul lavoro: ecco perché rischia di diventare un autogol

Il dibattito sui referendum dell’8 e 9 giugno si concentra in modo particolare sui quattro quesiti promossi dalla Cgil e sostenuti dai partiti di sinistra, sia pure con qualche mal di pancia all’interno del Pd da parte della componente riformista che ha la paternità del c.d. Jobs Act (è la definizione data erroneamente al Dlgs n. 23/2015 istitutivo del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti), che è l’obiettivo principale dell’assalto abrogativo; e che, nella visione di Maurizio Landini, rappresenta la caduta liberista di una sinistra che aveva rinunciato a esserlo. Occorre fare attenzione agli altri quesiti sul lavoro per i seguenti motivi: mentre l’abrogazione totale di un provvedimento (dlgs n. 3/2015) già maciullato dalla giurisprudenza costituzionale non cambierebbe sostanzialmente la disciplina dei licenziamenti perché non resusciterebbe l’articolo 18 nella stesura dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970), ma estenderebbe come norma di carattere generale il testo modificato dalla legge n. 92/2012 che, in pratica, ha disposto il risarcimento del danno come sanzione ordinaria nel caso di licenziamento per motivi oggettivi ritenuto illegittimo, gli altri tre quesiti sono, nell’ordine, dannosi quelli sulle piccole imprese e sul lavoro a termine, propagandistico quello sugli appalti. In seguito commenteremo anche quello sulla cittadinanza.

Jobs Act nel mirino: rischio indennizzi più alti per le piccole aziende

Referendum abrogativo denominato “Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità”.

L’obiettivo perseguito attraverso l’abrogazione è quello di innalzare le tutele per chi lavora in aziende con meno di quindici dipendenti, eliminando il tetto massimo di sei mensilità della retribuzione globale di fatto dall’indennità spettante al lavoratore in caso di licenziamento giudicato illegittimo. In caso di abrogazione – come ha fatto notare Pietro Ichino – il giudice potrebbe paradossalmente condannare l’impresa a un indennizzo persino superiore al limite vigente per le imprese maggiori, per le quali invece resterebbe operativo il limite di 24 mensilità ai sensi della legge n. 92 del 2012 (a fronte delle 36 mensilità come previsto dal d.lgs. n. 23/2015: ecco uno degli svantaggi per i lavoratori che deriverebbe dall’abrogazione del Jobs Act). È non solo evidente l’aspetto di irragionevolezza che deriverebbe dal combinato disposto dei due quesiti abrogativi, ma sarebbe contraddetta una linea che ha sempre tenuto a differenziare le piccole imprese, dove è influente l’intuitus personae tra il datore e il lavoratore. Anche la giurisprudenza costituzionale consolidata ha sempre ritenuto legittima una modulazione del limite massimo dell’indennizzo anche in relazione alle dimensioni del bilancio dell’impresa (dimensioni che possono non corrispondere al numero dei dipendenti). Tale modulazione era stata inserita già nell’articolo 8 della legge n. 604 del 1966, che introdusse una disciplina legislativa del licenziamento individuale, andando oltre la prassi degli accordi interconfederali basati su procedure di conciliazione e di arbitrato per mitigare la durezza del licenziamento ad nutum di cui all’articolo 2118 del codice civile.

Licenziamento illegittimo: cosa dice l’articolo 8 della legge 604/1966

Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.

A questo punto è ineccepibile la domanda che Pietro Ichino rivolge ai promotori di questi referendum: che senso ha prevedere che le imprese di minime dimensioni possano essere condannate a indennizzi senza limiti (cosa comunque irragionevole), nello stesso momento in cui, con il quesito sul Jobs Act, si riduce il limite massimo dell’indennizzo per le imprese maggiori da 36 a 24 mensilità?

Referendum sul contratto a termine: un passo indietro per il lavoro stabile

Referendum abrogativo denominato “Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi.”

Il quesito riguarda l’abrogazione di alcune norme che attualmente consentono la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato (e anche la loro proroga e/o rinnovo) fino a un anno senza dover fornire una qualche giustificazione, e, per quelli di durata superiore, sulla base di una giustificazione individuata dalle parti, anche se non prevista né dalla legge né dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi a livello nazionale. In sostanza, i rapporti di lavoro di durata infrannuale sarebbero sottoposti all’obbligo di giustificazione dell’apposizione del termine oggi sussistente per la stipulazione di contratti di lavoro di durata superiore all’anno, e il necessario riferimento, per tutti i contratti a termine, alle sole cause giustificative previste dalla legge o dai contratti collettivi. Si tratterebbe di un risultato che congela e fa arretrare il processo in atto che vede un incremento dei contratti stabili a scapito di quelli temporanei. Come ha fatto notare Pietro Ichino in termini di stock, i rapporti a termine in Italia sono circa il 15%, in linea con la media Ue. L’esperienza pratica, inoltre, insegna che è difficilissimo prevedere se il motivo indicato per l’apposizione del termine, quale che esso sia, supererà l’eventuale verifica giudiziale. Questa incertezza non giova né ai prestatori né ai datori di lavoro. I modi corretti per limitare questi contratti sono quelli già in vigore, e nel complesso funzionano bene: da quando l’obbligo della “causale” (limite “qualitativo”) è stato sostituito con i limiti cosiddetti “quantitativi”, il contenzioso giudiziale si è molto ridotto, e anche la quota di lavoratori a termine è diminuita.

È bene tener presente che l’esigenza di riconoscere un periodo di flessibilità nell’assunzione a termine ha origine da una direttiva dell’Unione europea.

Referendum sugli appalti: una tutela o una propaganda?

Referendum abrogativo denominato “Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”

Abbiamo definito “propagandistico” questo referendum perché lascia intendere che la corresponsabilità in solido del committente sarebbe introdotta ex novo in caso di affermazione del quesito referendario, mentre a norma dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008, in tutti i casi di appalto di opere o servizi che si collochino nell’ambito dell’attività svolta dall’impresa committente, quest’ultima è corresponsabile in solido con l’appaltatrice o subappaltatrice per gli infortuni accaduti ai dipendenti di quest’ultima, salvo che l’attività dell’appaltatrice sia totalmente estranea a quella dell’impresa committente, generando quindi rischi specifici sui quali quest’ultima non ha competenza tecnica. È evidente che il dispositivo è abbastanza ampio per cogliere la generalità dei casi. Se la proposta di abrogazione fosse approvata, la responsabilità civile e risarcitoria del committente – che decida di affidare lavori o servizi in appalto – sarebbe abrogata: questa eccezione non si applicherebbe più, cioè, la corresponsabilità solidale del committente anche nel caso in cui l’infortunio accaduto al dipendente dell’appaltatrice sia conseguenza di un rischio specificamente proprio dell’attività di questa, ancorché estraneo all’attività della committente. Indubbiamente vi sarebbe un’estensione della tutela, ma un sovraccarico di responsabilità irragionevole per l’impresa committente, nella convinzione errata che sia l’aspetto repressivo quello da implementare per contrastare il fenomeno degli infortuni sul lavoro.

Referendum sulla cittadinanza: dimezzare i tempi di residenza

Di tutta un’altra storia fa parte il referendum sulla cittadinanza, che propone di ridurre a 5 anni il periodo di residenza legale per chiedere ed ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana, che ora può essere concessa per naturalizzazione agli stranieri che abbiano risieduto legalmente e continuativamente in Italia per almeno dieci anni, come previsto dalla Legge n. 91 del 1992. In dieci anni, dal 2014 al 2023, gli stranieri che sono diventati cittadini italiani per una delle motivazioni previste dalla legislazione sono stati quasi 1,7 milioni. Il termine dei 10 anni rappresenta la regola generale ed è tra i più lunghi in Europa. L’esito del voto presenta implicazioni legali e pratiche per migliaia di residenti stranieri (soprattutto extracomunitari) e le loro famiglie. Per formarsi un’idea è utile consultare su LaVoce.info un recente articolo di Raffaele Lungarella sulle conseguenze di una eventuale vittoria del “sì” nel referendum. Secondo Lungarella, che elabora dati Istat attinenti alla materia, nel caso di una vittoria referendaria del “sì”, la riduzione da dieci a cinque anni di residenza produrrebbe effetti solo nel breve termine, che verrebbero tuttavia riassorbiti nel tempo. Iniziando la serie storica della maturazione dell’anzianità non nel 2004, come prima, ma nel 2016, con l’attuale legge 91/1992, gli stranieri che hanno ottenuto la residenza nel 2016 potrebbero diventare cittadini nel 2025. L’abrogazione della legge via referendum comporterebbe il ritorno alla norma 555/1912 e il dimezzamento del tempo di residenza. Nel 2025 potrebbero così diventare cittadini italiani gli stranieri per i quali il conteggio degli anni di residenza pregressa era iniziato nel 2016, 2017, 2018, 2019, 2020. Nel 2025 si avrebbe pertanto il picco del numero di nuovi cittadini. A partire dal 2026 il profilo temporale del numero di nuovi cittadini tornerebbe alla “piattezza”, dovuta all’identità tra il numero di stranieri che ogni anno diventano cittadini e il numero di coloro che avevano iniziato a maturare l’anzianità cinque anni prima.

È bene non dimenticare poi che anche nel caso della riduzione dell’anzianità di residenza, la concessione della cittadinanza non sarebbe automatica. L’aspirante nuovo italiano dovrebbe soddisfare i requisiti di reddito, di conoscenza della nostra lingua, quelli giuridici e sociali richiesti dalla normativa.

Demografia e cittadinanza: un’occasione da non perdere

È bene, poi, tenere presente che l’Italia soffre di un accelerato declino demografico che potrebbe trarre beneficio da una normativa più favorevole per quanto riguarda la cittadinanza, senza tuttavia sottovalutare che già con l’attuale normativa siamo ai primi posti in Europa nella naturalizzazione di cittadini stranieri. Dai dati Istat si ricava che la quota delle cittadinanze per matrimonio è minoritaria: solo nel 2018 si è attestata sul 20%. In tutti gli anni considerati, in più di otto casi su dieci sono le straniere a diventare cittadine italiane sposando un italiano. Dal punto di vista amministrativo, il matrimonio è probabilmente la procedura più celere e semplice. La modalità “altro” arriva sempre almeno intorno al 40% del numero totale di cittadinanze concesse. Nel 2023 quasi uno straniero su due è diventato italiano per una delle ragioni riunite in questo gruppo. I nuovi cittadini italiani con questa motivazione sono tutti molto giovani: nei primi tre anni della serie storica, tutte le cittadinanze “altro” sono state attribuite a persone di età fino a 20 anni; successivamente il loro peso sul totale è sceso sotto l’80% solo nel 2023. La forte concentrazione di giovani è dovuta quasi esclusivamente alla cittadinanza ottenuta dagli immigrati di seconda generazione. La normativa dà infatti ai figli nati in Italia da genitori stranieri la possibilità di richiedere la cittadinanza entro un anno dal compimento della maggiore età.

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