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Racconto della domenica: “Conticini d’autunno” di F. M. Esposito

Emma è bloccata: in un interminabile week-end speso tra docce, TV e pulizie, senza suo figlio e senza più un lavoro; bloccata nei suoi trentatré anni da madre (e da) single, ancora legata a un passato che non può più tornare e incapace di mettere piede in un futuro incerto. Mentre la ruota del tempo attorno a lei continua a girare e sembra lasciarla indietro, la sua vita è come la nebbia d’autunno, che rallenta le cose, le immobilizza. Ed Emma lo sa. Ma sapere di cosa si ha bisogno e allungare la mano e afferrarlo non sono la stessa cosa…

Racconto della domenica: “Conticini d’autunno” di F. M. Esposito

Esco sul retro. C’è una nebbia densa in cortile. Sono tre giorni che a Milano è comparsa la nebbia. Dà lentezza alle cose, la nebbia. Le immobilizza. Anche la fila nera dei secchi della spazzatura ha una maggiore compostezza. Un certo contegno. Alzo gli occhi, si vedono i panni stesi. Tanti rettangoli dai colori sfocati stesi all’aria. E i ballatoi esterni con le porte a vista delle case di ringhiera. Sono belle le case di ringhiera, penso. Pami sta svuotando il secchio dell’umido. L’operazione finisce con un rumore di latta, un colpo sordo e vibrato del coperchio.  

«Dov’è?» le chiedo.  

«Cazzo, Emma…»  

«Pami, non potevo. Adesso dov’è?» 

«Ti conviene girargli al largo, è incazzato nero con te, ieri sera c’era il delirio ai tavoli, non ti dico. Ros si è messo a servire al posto tuo, rompevano le palle perché la roba arrivava lentamente…» 

«Era un’emergenza.» 

«Se ne strafotte, lui.» 

«Glielo spiegherò. Dov’è?»  

Accompagno la porta dopo di lei e appena metto piede dentro, il capo, Ros, è lì in mezzo alla stanza a gambe divaricate che mi aspetta.  

«Sei licenziata» dice.  

La presunzione di farcela sempre e comunque senza di loro, questo mi ha sempre fregata con gli uomini. Non ho nemmeno insistito, ho unito per bene i malleoli, la borsa premuta lungo il fianco, ho abbassato gli occhi, solo gli occhi, il mento no. E me ne sono andata.  

Quindi ho la giornata libera, seicento euro con cui tirare il mese, le fotocopie del CV da fare, e la ruota si è rimessa a girare. Venghino, venghino, signori e signore, a vedere la mamma single sulla ruota… 

Prendo la posta dalla cassetta, mi scrive tale Banca Intesa e certo Signor Gas. Mi pinzo in mano le due buste, entro in casa. Il silenzio delle stanze vuote mi uccide, accendo la TV. Mi svesto, rimango in mutande e maglietta davanti alla tele. Sto guardando della gente ammassata nei barconi, dicono che vogliono venire in Italia, ché in Italia si sta bene, ché c’è lavoro. Mi va una cosa che faccia rumore nel palato. Spacchetto la confezione trasparente, mastico un cracker mentre con la destra apro il miscelatore della doccia. Ho tutto sabato e metà domenica, questo è il week-end di Max. Non posso nemmeno mettermi a cercare lavoro a quest’ora, credo che farò molte docce, sì, molte docce.  

Ho i piedi ancora umidi, la pelle spugnata dal vapore bollente, prendo la macchinina blu con le fiamme, a terra, in mezzo al corridoio. Vado ad appoggiarla sul tavolo di Lori. C’è il mantello argentato arrotolato sul suo letto. Lo piego in quattro. Le cose di Lori. Lo aspettano. Come me del resto. L’accappatoio vibra, è un numero di cellulare. 

«Pronto» dico. 

«Come stai?» 

Ecco, l’immane cazzata di non averlo memorizzarlo l’altra sera, penso. 

«Bene» dico. 

Non mi viene da dire “E tu”.   

«Io pure, bene» dice Simpatia. 

«Bene…» ripeto. 

«Ho saputo da Pami che stasera non sei di turno.» 

«Be’, è un eufemismo, mi ha licenziata» dico.  

La spugna sta diventando sempre più fredda, vado di là in camera, sciolgo il turbante e mi friziono i capelli sulla tempia sinistra, dall’altra parte ho il telefono. 

«Mi spiace, davvero, ma senti, visto che tanto non lavori…» 

«…» 

«…che ne dici se andiamo a berci qualcosa?» 

«Per festeggiare il mio licenziamento, dici?»  

«Era per…» 

«Sì, no, lo so.» 

«Sì, no, lo so, che?» 

«Sì, no, volevo dire…»  

Lui sorride, la mia voce si ammorbidisce.  

«È che mi sono già messa d’accordo per andare a vedere un film» 

«Ah, cosa vai a vedere?» 

“Cazzo, cosa vado a vedere?” penso. 

«Bah, decidiamo lì all’ultimo.»  

«Capito, anch’io delle volte faccio così…»  

E non lo so, come se ci fosse un sottotesto con quel anch’io delle volte faccio così riferito non al cinema ma al fatto di sparare palle. 

«Allora sarà per un’altra volta» dice Simpatia. 

«Sì, sarà per un’altra volta» ripeto.  

Mi si ghiacciano i piedi, devo mettermi assolutamente un paio di calzettoni. 

«Ok, allora ciao…» dice Simpatia. 

«Allora ciao.» 

«Non vale.» 

«Cosa?» 

«L’ho detto prima io…» dice.  

E attacco. 

Sono nuda, tagliata a metà nella striscia di specchio incollata al muro ma se mi metto di profilo posso starci tutta e così faccio. La pelle tesa sulla schiena, troppo magra, troppo ossuta la mia schiena. I seni tondi, belli. Ancora belli. Penso che tra qualche anno non sarà più così, penso che dovrei approfittarne adesso che sono ancora giovane, ancora bella, mi dico. Penso che dovrei forzarmi, fare come fanno le altre, imitarle, copiarne da fuori i movimenti, e attraversare i ponti, andare avanti, e non assecondare la mia tendenza sotterranea a evitare. Io evito. Preferisco evitare. Certe situazioni non le so gestire. O forse non le voglio gestire. Mi sento congelata, questa è la verità. Mi sento come in attesa, in piedi e ferma su un maledettissimo ponte. Perfettamente a metà. In stallo. Né di qua né di là, la scelta richiede movimento, e io in questo momento non so camminare. Sono in modalità pause. Come se avessi il telefono all’orecchio e stessi ascoltando a nastro Le quattro stagioni di Vivaldi, sperando che all’improvviso la voce metallica che mi ha messo in attesa venga sostituita dalla voce di. Di Max, ecco di chi. Mi giro sull’altro fianco, se tiro dentro la pancia mi si possono contare le costole, sembro ancora una ragazza, mi dico. Poi prendo uno slip di cotone, una t-shirt bianca e penso che se sembro allora vuol dire che non lo sono già più. 

Mami ti sto facendo in disenio. 

Chissà com’è bello, dopo vi chiamo.  

Mi ordino una pizza. Mangio, bevo, guardo la tele, guardo la tele, guardo la tele… Quando riapro gli occhi la spalla mi formicola. Il divano è uno schifo per dormire, cerco il telecomando, spengo il brusio, cerco il telefono, la bustina verde cadmio lampeggia sul display. Ci sono due messaggi. 

Com’era il film………? 🙂 L.  

Due punti, trattino, parentesi tonda. Ma soprattutto, tutti quei puntini di sospensione. Magari li unisco e viene fuori il disegno del tizio con la scarpa vecchia abboccata alla canna da pesca. Cancella messaggio, o rispondi messaggio? 

Secondo messaggio.  

Mami o fatto tuto e dentifrico, domani ti porto le catsgne. Buona Notte 

Attutisco il silenzio mettendomi a pulire. La candeggina punge agli occhi, divarica le narici. Pulisco. Pulire è terapeutico, ti fa sentire utile, ha un senso preciso, ti dà un obiettivo raggiungibile. Prima è sporco, poi pulito. Azione, risultato. Cose sensate. Necessarie.  

Poi alle tre mi viene fame.  

Poi alle tre e venti mi appisolo.  

Poi sento il citofono. 

«Sono io.» 

È lei. Se c’è una cosa che mi urta è la gente che si presenta in casa senza avvisare. 

«È successo qualcosa?» dico. Richiudo per bene la porta, la serratura scatta con il doppio innesto mentre Pami avanza con tutta la sua zaffata caramellosa a strascico. Usa quelle creme che sanno di zucchero.  

«Wow, questa casa è uno specchio» dice. Le sue pupille fanno dei cerchi continui sulle pareti. 

«Solo una domenica su due» dico.  

Preparo la moka, lei rimane in piedi su dei tacchi vertiginosi. Scosta una sedia dal tavolo, ci appoggia il giubbino. 

«Quindi mi ha già rimpiazzata» dico appena finisce di raccontare. 

«Una vera rompicazzo» dice.  

Si alza con la tazzina sporca, la mette nel lavello. Poi con la testa fa una virata in diagonale verso la porta. 

«Ma il mio fidanzato?» 

«È a castagne, col padre.»  

“Quel posto delle castagne piaceva un sacco anche a me” penso.  

«Bene, allora affrontiamo il nocciolo della questione» dice. Appoggia l’osso sacro a bordo tavolo, mi viene sotto, automaticamente scosto la mia sedia indietro per non ritrovarmela addosso. 

«Che abbiamo intenzione di fare?» dice.  

Ho il suo bacino qui davanti in primo piano che mi fissa, le braccia invece sono incrociate su. 

«In che senso.»  

«Guarda che il mio amico è un bel tipo. Se la passa pure bene.» 

«Beato lui.» 

«E dice che tu gli interessi, che hai un che di…»  

«Di?» 

«Di strano…» 

«Io non sono strana.» 

«Era per dire.» 

«Tu mi trovi strana?» 

«Ma che c’entra.» 

«Nel senso, se io fossi strana tu me lo diresti?» 

«Ma io non sono un maschio, è diverso.» 

«Quindi sarei strana solo per i maschi?» 

«Hai capito cosa voglio dire…» 

«No, non l’ho capito. Spiegati.» 

«Nel senso, che loro parlano così, pensano così.» 

«Loro chi?» 

«I maschi.» 

«Mi sembra di sentire mio figlio, i maschi, le femmine, come se ci fosse un’identità di genere.» 

«Se dici un’altra cosa tipo identità di genere, me ne vado.» 

«Identi…» 

Ci guardiamo a chi ride prima, abbiamo sorriso contemporaneamente. 

«Comunque, loro fanno così quando gli interessi.» 

«Ancora loro. E poi la cinica sarei io.» 

«Non è cinismo è statistica.» 

«Statistica» alzo un sopracciglio «E da quando ti occupi di statistica?». 

«Scema.»  

«… Il prossimo che mi dice che sono strana, giuro che gli lascio un livido sulla guancia.» 

«Insomma, quanti anni hai?» 

«Pami, si può sapere cosa vuoi stamattina?» 

«Non è mattina, lo vedi? lo vedi come stai messa? Mattina o pomeriggio per te è lo stesso…» E ride. «… So io che ti ci vuole». 

«Pami, segui il labiale. Io. Non. Ho. Un. Lavoro.»  

«E tu segui il mio. Tu. Non. Hai. Un. Uomo.»  

«Brava, facciamo i conti, uno più uno…» 

«Due cazzi» completa lei. 

Vado a chiudere la porta del bagno, sono le scarpe di Lori che fanno rumore, le ho messe in lavatrice, sbattono nel cestello a ritmi regolari, una pulsazione di suola, un basso continuo, sempre con la stessa nota, sempre la stessa nota, e penso che ne ho trentatré, dannazione, trentatré anni, un attimo e saranno quaranta. 

Lori scappa di corsa in corridoio, dice che deve andare in bagno. Lo accompagno con lo sguardo, poi ritorno sulla faccia stravolta di Max. Lascio la mano di taglio sulla porta, tanto non entra. 

«Com’è andata?» dico. 

«Bene.» 

«Con Sandra?» 

«Tutto ok.» 

«Qualcosa che devo sapere?» 

«No, tutto a posto. Poi ti racconto un’altra volta.»  

Col pollice e l’indice Max inforca gli occhi a cavallo del setto nasale, se li stropiccia. “C’era una volta che non arrivò mai” penso mentre riaccompagno la porta. Mi guardo il polso strozzato dai manici di plastica, ho un sacchetto pieno di castagne, non so che farmene.  

Scopro che non ha nemmeno fatto i compiti.  

«Perché non li hai fatti sabato?» gli chiedo mentre si sta rosicchiando tutto concentrato l’ultimo cornicione di pizza. 

«Lo sai che l’ho battuto due volte? Duuue!»  

“Trentasette anni, Max ha trentasette anni” penso. 

«Avete fatto giochini tutto il tempo?»  

«Non è un giochino la Wii.»  

«Prendi il diario.» 

«Tanto lo so già cosa devo fare.»  

«Prendi il diario.»  

Sfoglio velocemente le pagine, alzo gli occhi su Lori, punto un dito perfettamente davanti al suo naso a pallina. La vista gli si sfoca a mettere a fuoco il mio dito. 

«Allora, ascoltami bene.» 

«Uff.» 

«Solo perché è tardi. Ma è l’ultima volta. L’ultima, prometti.» 

«Va bene, prometto.» 

«Guarda che hai promesso.» 

«Lo so.» 

«Guarda che una promessa è una promessa, è un impegno serio.» 

«Lo giuro.» 

«Non si giura.» 

«Allora promesso.» 

Rileggo velocemente l’esercizio da fare. 

«Allora, tu due, io tre» dico. 

«Ma avevi detto che li facevi tu!» 

«Non tutti, Lori. Io tre, tu solo due, quindi.» 

«E uffa però.» 

«E uffa lo dico io.» 

«No, io.» 

«Passami l’astuccio.» 

Me lo passa, apro la cerniera che dente dopo dente fa quel rumore di sgranatura, cerco il tratto pen blu. 

«Mami.»  

«Che c’è.» 

«Se Sandra si sposa con Max…» 

«Hanno detto così?» 

Il tratto pen mi rimane in equilibrio sul medio.  

«Secondo me lei vuole» dice.  

Punta il gomito sul tavolino, appoggia la guancia nel palmo della mano. 

«Sono cose loro» dico e penso che siamo sempre stati contrari al matrimonio, io e Max. 

«Ma se poi alla fine si sposano?» 

«Lori, dai che è tardi. Allora, vediamo un po’… »  

Do un’occhiata alla pagina precedente, giusto per riprendere la mano, dunque, tre pensierini sull’autunno… 

L’autrice

Francesca Marzia Esposito è laureata al Dams di Bologna, ha frequentato un master in Scrittura e produzione per il cinema all’Università Cattolica di Milano. Vive a Milano ed è stata ballerina professionista per alcuni anni. Adesso insegna danza. I suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste. È autrice di due romanzi: La forma minima della felicità (Baldini & Castoldi, 2015), Corpi di ballo (Mondadori, 2019). 

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