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Migranti: “In Italia serve il modello canadese”

INTERVISTA AL SOCIOLOGO MAURIZIO AMBROSINI – “Dobbiamo aprire canali d’ingresso per lavoro più seri di quelli che abbiamo oggi: un’ipotesi è il sistema a punti sul modello canadese”

Migranti: “In Italia serve il modello canadese”

Al Consiglio europeo di fine giugno i leader dell’Unione hanno dedicato al tema dei migranti appena dieci minuti. Come sempre, si è deciso di non decidere: zero trattative, zero impegni. A poco sono servite le buone intenzioni di Mario Draghi e Angela Merkel, che pochi giorni prima del vertice – al termine di un bilaterale a Berlino – avevano parlato della necessità di una strategia comune fra i Paesi di primo approdo (come l’Italia) e quelli verso cui sono diretti i movimenti secondari (come la Germania). Per ora, l’accordo sui ricollocamenti rimane un miraggio e l’unica intesa possibile riguarda il coinvolgimento di Paesi extracomunitari. Ma è davvero una soluzione efficace? Lo chiediamo a Maurizio Ambrosini, professore di Sociologia delle migrazioni all’Università di Milano e autore di una recente pubblicazione per Laterza dal titolo “L’invasione immaginaria”.

Professore, a livello europeo sembra che l’unico modo di mettere d’accordo tutti i Paesi sia esternalizzare la gestione delle migrazioni, trasferendo grandi quantità di denaro ai Paesi di partenza o di transito – come Marocco, Tunisia e Libia – sulla scorta di quanto fatto nel 2016 con la Turchia. Cosa ne pensa?

«Questo approccio vale per i rifugiati e i richiedenti asilo, che rappresentano un modesto segmento del complesso mondo degli immigrati. In Italia, nel 2019, erano appena 300mila su un totale di cinque milioni e mezzo di immigrati regolari. Quindi, volendo schematizzare, se per rifugiati e richiedenti asilo la politica è l’esternalizzazione, per tutti gli altri la parola chiave è selezione. L’Unione europea porta avanti una selezione basata sulle cosiddette 3 P: passaporti (perché consente l’ingresso da oltre 50 Paesi del mondo senza obbligo di visto), portafogli (perché alcuni Paesi, Cipro e Malta, concedono la cittadinanza agli investitori) e professioni. L’ultimo punto è particolarmente importante: i migranti qualificati circolano in abbondanza e non sono solo ingegneri o scienziati. In Europa, ad esempio, arrivano moltissime infermiere filippine e indiane».

Per quanto riguarda l’Italia, la crisi demografica produce un calo della popolazione attiva, fenomeno che nel tempo sarà sempre meno sostenibile. Secondo lei, una gestione accorta della politica migratoria potrebbe aiutare a contrastare questa tendenza?

«Sono un po’ tiepido sull’argomento, per due ragioni. La prima è che se uno guarda i dati sul mercato del lavoro italiano può facilmente vedere che i tassi di attività sono ancora molto inferiori alle medie europee, in particolare per quanto riguarda le donne. La seconda è che non basta accogliere dei migranti perché diventino immediatamente operativi. Se arrivasse mezzo milioni di africani, in gran parte analfabeti e con una bassa conoscenza della lingua italiana, come dovremmo impiegarli? Bisogna saper favorire l’incontro fra le necessità del nostro sistema economico e le potenzialità di bacini di lavoratori stranieri, comunitari e no. Ad esempio, con l’invecchiamento della popolazione, negli anni a venire avremo bisogno di centinaia di migliaia di assistenti familiari ed è improbabile che i lavoratori italiani riusciranno a soddisfare questa domanda».

Per raggiungere questo obiettivo, sotto quali aspetti dovrebbe cambiare la politica migratoria italiana?

«Abbiamo bisogno di riaprire dei canali di ingresso per lavoro più seri di quelli attualmente previsti dal decreto Flussi, che su 30mila posti disponibili in un anno ne riserva 18mila per le occupazioni stagionali, ma dimentica completamente figure importanti (a cominciare dagli assistenti familiari, di cui abbiamo detto). Per tutti i settori che non rientrano nel lavoro stagionale, sarebbe utile selezionare gli immigrati con un punteggio basato su tre criteri: titoli di studio, padronanza della lingua italiana e legami con persone che vivono già qui e che quindi possono aiutare a risolvere problemi pratici come l’abitazione e altre necessità immediate per integrarsi. Si tratterebbe di un sistema a punti sul modello canadese: come Cnel abbiamo fatto una proposta precisa in questo senso». 

Un’apertura simile rischia però d’incontrare forti resistenze, soprattutto perché, secondo una certa narrazione politica, sulle nostre cose sarebbe in arrivo da anni un flusso incontrollato di migranti. Spesso si parla di “invasione”. I dati, invece, cosa dicono?

«Che la realtà è diversa. Trainati dal mercato, i flussi migratori verso l’Italia sono saliti fino al 2008 e la politica ha dovuto adeguarsi, regolarizzando quegli immigrati che il mercato (famiglie comprese) aveva lasciato entrare. Dal 2008, con l’inizio della grande crisi, il mercato ha avuto meno bisogno di immigrati e da allora i flussi sono rimasti stabili. La conclusione, un po’ paradossale, è che probabilmente, se non avessimo fatto nulla e avessimo lasciato arrivare i migranti che volevano arrivare, li avessimo lasciati cercare lavoro, avessimo lasciato che gli imprenditori li assumessero, il numero di immigrati non sarebbe diverso da quello che abbiamo oggi. Se guardiamo al passato, ci rendiamo conto che la società si è autoregolata in base alle proprie esigenze. Le politiche migratorie non sono fatte solo di politica, ma dell’intreccio di Stato, mercato e società civile».

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