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Marcello Messori tra i firmatari del Manifesto per l’Euro: “Uscirne sarebbe una catastrofe”

Marcello Messori, professore di economia politica all’Università Luiss, è il direttore del SEP (Luiss School of European Political Economy), che recentemente ha lanciato un manifesto intitolato “Le Ragioni dell’Euro”, che è stato firmato da più di 300 economisti ed esperti di politica: “La moneta unica è solo il capro espiatorio”.

Marcello Messori tra i firmatari del Manifesto per l’Euro: “Uscirne sarebbe una catastrofe”
“Dire che basterebbe uscire dall’Euro per risolvere i guai dell’economia italiana è profondamente sbagliato, e nel caso si realizzasse sarebbe l’avvio di una crisi catastrofica non solo dell’economia, ma probabilmente della società e delle istituzioni”. Marcello Messori, professore di economia politica della Luiss, è uno degli animatori del SEP (Luiss School of European Political Economy). Recentemente proprio il SEP ha proposto un manifesto – Le Ragioni dell’Euro – che è stato firmato da più di 300 economisti ed esperti di politica, in cui si contrastano con forza le demagogiche affermazioni di quanti in campagna elettorale hanno trovato nell’Europa e nell’Euro un “nemico esterno”, un “capro espiatorio” per distogliere l’attenzione degli elettori dai veri mali del paese e dalle responsabilità di una classe politica che non è stata in grado di gestire le sfide poste dalla rivoluzione tecnologica e dalla rapida apertura dei mercati internazionali.

“Queste accuse all’Europa – dice Messori – nascono da una visione distorta della realtà italiana secondo la quale prima dell’Euro tutto andava bene e poi con la moneta unica abbiamo perso progressivamente terreno fino a precipitare nella drammatica crisi degli ultimi tre anni. Ma per capire bene cosa succederebbe con un ritorno alla lira bisogna tener presente che dall’inizio degli anni ’90 il mondo è profondamente cambiato: c’è stata la globalizzazione ed è partita la grande rivoluzione tecnologica dell’ICT. Il combinato disposto delle due rivoluzioni ha cambiato il modo di produrre, i mercati e il posizionamento delle nostre produzioni. Negli anni ’70 ed ’80 le nostre aziende sono state brave ad imitare le innovazioni prodotte dai paesi più avanzati e migliorarle attraverso processi più efficienti, o sistemi come quello dei distretti, che riuscivano ad assicurare un vantaggio competitivo per le nostre merci.”

Ma questi successi industriali non ci mettevano neanche allora, al riparo da una inflazione elevata e quindi da ricorrenti crisi del cambio, come avvenne nel ’92. ” Anche in quegli anni in sistema manteneva gradi squilibri sia nella spesa pubblica sia nella struttura dei costi di produzione che inevitabilmente sfociavano in una svalutazione della moneta con conseguenti difficoltà a finanziarsi sui mercati. Tuttavia per alcuni anni in sistema industriale era riuscito a mantenere una propria competitività di fondo che però con l’introduzione delle due grandi rivoluzioni prima accennate, stava decisamente perdendo. La svalutazione in quell’epoca ha dato un momentaneo sollievo, ma non ha certo affrontato i problemi della progressiva perdita di competitività che non era solo congiunturale, ma si collegava alla necessità di adattare il nostro sistema produttivo alle mutate condizioni dei mercati e della tecnologia. E’ un po’ come se un individuo che non sa nuotare viene ogni tanto aiutato a stare a galla da qualche nuotatore di passaggio. Ma questi aiutini non insegnano a nuotare e prima o poi il nostro rischia di affogare”.

Questo era già visibile prima della nascita dell’Euro e trova spiegazione nella scarsa capacità del sistema italiano sia politico che economico, ad individuare dei percorsi di cambiamento capaci di farci stare dentro i grandi flussi dell’integrazione dei mercati mondiali. Ma l’Euro avrebbe dovuto aiutarci e perché, invece, non lo ha fatto? “L’Euro ci ha offerto una opportunità per fare quelle “riforme strutturali” che erano indispensabili, facendoci uscire dalla spirale dell’inflazione e della svalutazione, accompagnata da una straripante spesa pubblica, che riduceva la propensione agli investimenti ed anzi innescava periodicamente precipitose fughe di capitali. Si era capito allora che questa grave instabilità rendeva impossibili gli investimenti a lungo termine e non stimolava quei cambiamenti negli assetti dei nostri mercati (dalla finanza troppo ancorata alle banche, a quelli del mercato del lavoro, e quelli dei servizi tenuti per lo più al riparo dalla concorrenza). E questo immobilismo stava determinando una progressiva riduzione del nostro tasso di crescita. L’ Euro ci offriva la possibilità di avere capitali abbondanti a tassi bassi, un mercato europeo più integrato e con interscambi in crescita,e il tempo per adattarci alle esigenze di una società industriale avanzata in cui i prodotti si affermano più sulla base del contenuto tecnologico e culturale che per il solo prezzo. Ma purtroppo per oltre 15 anni non abbiamo saputo gestire questi cambiamenti, abbiamo sprecato questo tempo, ed ora dobbiamo recuperare con fatica”.

E quindi potremo uscire, magari temporaneamente, dall’Europa per curarci e poi eventualmente rientrare una volta risanati? “L’analisi che abbiamo fin qui fatto, dimostra che in un mondo integrato il gioco della svalutazione non funziona più. Mettersi in questa situazione vuol dire isolarsi dagli altri paesi, mentre il nostro problema è quello di integrarci di più, di trovare una nostra collocazione tra le grandi opportunità offerte dall’espansione del commercio mondiale, non quello di chiuderci nel nostro piccolo mondo. Uscire dall’Euro provocherebbe un vero terremoto per i risparmiatori e per i lavoratori a reddito fisso. Non solo, ma le nostre banche e le nostre aziende indebitate in Euro all’estero si troverebbero nell’impossibilità di rimborsare i loro debiti e quindi potrebbero fallire”.

Se però nessuno fa niente, e da Bruxelles non arrivano segnali di rilancio dell’economia, la disperazione di milioni di disoccupati, specie giovani, può portare all’affermazione di forze politiche che spingono i cittadini a ricercare la salvezza rinchiudendosi dentro le mura della propria città. “Questi sono tutti segnali della crescente sfiducia che i vari paesi nutrono l’uno verso l’altro. La Grecia ha truccato i conti, l’Italia paga ancora il comportamento tenuto nell’estate del 2011 dal Governo Berlusconi quando venne varato in una situazione di drammatica emergenza, un decreto di aggiustamento dei conti pubblici il 14 agosto. Ma non appena la Bce iniziò, pochi giorni dopo, ad acquistare i nostri titoli pubblici, i nostri governanti si gettarono con foga allo smontaggio di tutte le norme più incisive del decreto appena varato, suscitando sconcerto e disappunto in tutti gli osservatori internazionali tra i quali si consolidò l’opinione che, in assenza di vincoli stringenti, l’Italia non avrebbe fatto alcun risanamento. E noi oggi paghiamo ancora quella cattiva reputazione che ci siamo costruiti allora.”

E che sarebbe ulteriormente rafforzata se gli italiani dovessero mandare a Bruxelles una nutrita pattuglia di parlamentari della Lega di Salvini o dei 5Stelle di Grillo che va dicendo che bisogna fare un referendum sull’Euro. I capitali fuggirebbero e l’economia si bloccherebbe per molti mesi in attesa del risultato del referendum. Ma come si può agire per far tornare una maggiore fiducia e per varare una politica più attiva di stimolo alla crescita? “Intanto bisogna chiarire che l’allarme sul fiscal compact non è fondato. Se si mantiene un pareggio strutturale del deficit annuo, con una crescita del PIL del 3% nominale (comprensiva dell’inflazione), la riduzione del debito è automatica e casomai potrà essere agevolata da una seria politica di privatizzazioni. Quindi non c’è in prospettiva la necessità di ulteriori sacrifici. Bisogna invece far valere gli elementi di flessibilità già contenuti nelle norme attuali. Il problema è che la nostra crescita è troppo bassa e così anche il tasso d’inflazione. Bisogna quindi che nel breve periodo l’Europa ci aiuti ad effettuare un rilancio della domanda attraverso il finanziamento degli investimenti che peraltro aiuterebbero nel medio periodo, il rafforzamento della competitività che dovrà essere perseguito con le riforme di cui tanto si parla: lavoro, PA, Giustizia, Istituzioni. Poiché il problema principale è quello della fiducia, si dovrebbe utilizzare al meglio il nuovo strumento europeo che ora si chiama “Partenariato per la crescita ” e che consente di avere sostegni comunitari (bisogna discutere di quale tipo) a fronte di impegni vincolanti per riforme sia macro che micro le quali, com’è noto richiedono un certo lasso di tempo prima di dare i benefici attesi.”

Dobbiamo in definitiva dimostrare di voler fare degli aggiustamenti all’interno del nostro Paese per poter contribuire  a quei cambiamenti che sono auspicabili anche in Europa. Le scorciatoie del ritorno alla lira che ad una prima impressione possono apparire come il bel sogno di un ritorno ad una mitica era felice, se attuate, si trasformerebbero presto in un incubo spaventoso.

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