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“Lezioni dalla crisi”, il nuovo saggio di Giuliano Amato e Fabrizio Forquet porta lo spread tra noi

il nuovo saggio dell’ex premier e del vicedirettore del Sole 24 Ore, già diventato una trasmissione televisiva, aiuta a capire che cosa sta realmente succedendo e umanizza termini un po’ sacrali come spread, Btp, fondo Esm – Per gentile concessione dell’editore Laterza e degli autori pubblichiamo l’ultimo capitolo

“Lezioni dalla crisi”, il nuovo saggio di Giuliano Amato e Fabrizio Forquet porta lo spread tra noi

Faremmo un peccato di orgoglio se pensassimo che l’Eu­ropa sia stata la sola madre di ogni progresso nel mondo, dello sviluppo economico, della scienza, della stessa idea di democrazia. Ma in tempi in cui la nostra autostima merita le cure di un esperto psicoanalista, converrebbe più spesso ricordarsi di quei nostri primati. Fa bene all’anima recupe­ rare la consapevolezza di essere stati uno dei centri motori più importanti  dello sviluppo della civiltà. Ci si sente me­ glio. E forse aiuta anche a trovare una risposta non dettata dal nostro sconforto alla domanda che ci vogliamo porre al termine di questo nostro vagabondare attraverso la crisi. Nel mondo di çlomani rischiamo di diventare una piccola periferia?
Proviamo, dunque, a guardare al futuro. Finora abbia­mo parlato del passato. Abbiamo raccontato questa crisi partita  quattro  anni fa negli Stati Uniti, quando  povera gente non è più riuscita a ripagare i propri mutui, propa­ gatasi al mondo intero a causa delle lunghissime campate delle architetture  di carta concepite da una finanza fuori controllo. Abbiamo raccontato come abbiamo reagito, con sforzi positivi, ma anche con le nostre mille contraddizioni, e con l’incapacità di portarci allivello  delle grandi sfide che questa crisi ci pone. Abbiamo, infine, cercato di capire a che punto siamo oggi, con un po’ di luce che si vede in fondo  al tunnel, ma anche con il timore che quel brillio siano in realtà i fari del treno che sta per travolgere noi e il destino storico dell’Europa.

CI CHIEDIAMO ORA VERSO DOVE E VERSO COSA ANDIAMO

Tra i miei sogni ricorrenti ce n’è uno che ha a che fare con tutto questo. Credo di averlo già raccontato, mia moglie dice che lo faccio anche troppo  spesso. Ma quel sogno ritorna e io lo racconto. In realtà è una scena, un’u­ nica scena. Un professore che fa lezione ai propri studenti all’aperto. Non in un’aula universitaria, ma sotto un cielo indistinto. Gli studenti ascoltano, lui spiega. Il tema è pro­ prio il futuro che ci aspetta, ma le parole non si sentono e non si capisce se l’atmosfera sia serena o angosciata.

Mi sveglio con lo stesso insistente interrogativo: qual è la ragione di questa lezione all’aperto? Può essere una o ilsuo opposto. Potrebbe essere una bella giornata di primavera in un’Italia dove la connessione senza fili copre ogni cen­ timetro del territorio. Ci si può connettere, lavorare o fare lezione da ogni panchina. I professori possono accedere a ogni sapere lontano. Gli studenti, sereni, si godono il sole in attesa di concludere gli studi e trovare un lavoro degno del loro percorso di formazione. Oppure  possono essere tutti n fuori per una ragione opposta: perché nelle univer­sità non c’è luce o riscaldamento,  magari ci sono i topi. I controsoffitti sono pericolanti perché non ci sono più i soldi per la manutenzione, c’è polvere dappertutto perché non c’è più il personale delle pulizie. I pochi sopravvissuti che pensano ancora al sapere se lo scambiano all’aperto per non rischiare di morire o di ammalarsi al chiuso. Quale di questi due scenari si aprirà per l’Italia e l’Europa dopo la crisi? Io sono convinto che possiamo ancora am­ bire al primo, a quello di una nuova primavera. In fondo siamo stati capaci di ripartire dopo crisi più gravi. Solo set­ tanta anni fa l’Europa si annientava nella sua guerra civile. Seppe rinascere, allora. E seppe rinascere l’Italia, tanto che si parla ancora del suo «miracolo». Io non credo ai mira­ coli, ma sono sicuro che l’Europa e l’Italia possano essere ancora padrone del proprio futuro.

ANNAMARIA SIMONAZZI Europa è un insieme di paesi che forma un blocco economico rilevante a livello mondiale. Ma se continua  con queste politiche di bassa crescita e di austerità, basate solo sulle dportazioni, rischia di perdere il ruolo che ha giocato finora nel contesto internazionale. Ci sono regioni del mondo che stanno crescendo molto di più, sono integrate fra di loro e sempre più rappresentano una calamita per altri paesi. Gli Stati Uniti guardano sempre più all’Est piuttosto che all’Eu­ ropa. Dobbiamo pe ciò pensare a quali politiche mettere in atto a livello europeo per rimanere un attore rilevante nel contesto internazionale.

Verso quale destino stiamo andando? Le categorie di crescita e declino sono opzioni aperte oggi come lo sono state nei secoli passati. E i problemi da fronteggiare sono innumerevoli. Ma il mondo nel suo insieme va senza dub­ bio incontro a una condizione migliore. Alcuni decenni fa, sembravano condannati a un’eterna  miseria i tanti, tantis­ simi, esseri umani alle prese con la fame. C’erano malattie di cui nessuno si occupava. Miseria e morti precoci erano la normalità dell’esistenza in gran parte del mondo. Oggi tutto questo c’è ancora, molti bambini muoiono e non do­ vrebbero morire, donne e uomini sopravvivono con quasi niente. E tuttavia milioni di persone nel mondo sono usciti dalla povertà e milioni e milioni aspettano  di uscirne. I ritmi di sviluppo delle aree più povere del mondo hanno cambiato la faccia di interi paesi. India, Cina, Brasile, da regni della povertà, sono diventati simboli di una crescita produttiva impetuosa. Per loro, insieme alla Russia post­ sovietica, è stato anche coniato un acronimo, Bric, che nel­ le analisi degli economisti è sinonimo di futuro. Se continueranno questi sviluppi, il mondo di domani sarà sempre più fatto di paesi sviluppati, in grado di pro­ durre autonomamente ciò di cui hanno bisogno e magari di esportare. Come potente alleato questi paesi hanno anche il fattore demografico: sono abitati da un numero crescen­ te di persone, mentre l’Europa  da questo punto di vista è ferma. Torno a chiedere, allora: in questo contesto cosa sarà dell’Europa?

Noi siamo stati la culla di tantissime innovazioni che hanno reso grande l’umanità. Tecnologie, scienze, isti­ tuzioni democratiche,  letteratura  e civiltà: quanto  bene, quanto sapere e quanto futuro abbiamo costruito e diffu­ so nel mondo. Certo, a volte lo abbiamo fatto anche con strumenti  imperiosi  o poco  commendevoli,  però  siamo stati il centro del mondo e lo abbiamo modellato a nostra somiglianza.

Pensare oggi di perpetuare questo modello eurocentri­co sarebbe illusorio, un errore, e forse anche un’ingiustizia.
 
Un mondo che si apre a nuove realtà, che si fa policentrico, che abbatte le distanze e attenua le differenze economiche e sociali, è un mondo migliore. Di cui anche noi europei possiamo e dobbiamo essere orgogliosi. Ma è giusto porci il problema del nostro ruolo in questo
mondo. Perché è certamente vero che tra i possibili svilup­ pi c’è quello di diventare una realtà marginale e periferica. È vero che, nel riequilibrio della ricchezza, rischiamo di fare passi indietro difficilmente sostenibili dai nostri figli e dai nostri nipoti.

Nel nuovo sistema mondiale della produzione tutti pro­ducono tutto. Ciascuno, vedendolo, può replicare ciò che ha fatto ciascun altro e, se lo sa fare meglio, lo venderà in futuro al posto di quest’altro.  Le gerarchie sono in conti­ nuo movimento. Il lignaggio conta sempre meno. ilcampo di gioco è diventato unico. E se non sei competitivo, se non corri di buona lena, se non hai buoni schemi e una tecnica raffinata rischi di sedere in panchina.

Tutto questo è certamente vero e faremmo bene a pren­derne  atto a ogni livello, dalla politica al sindacato, alle imprese. E tuttavia non bisogna neppure credere a quegli apocalittici che danno per morto, seppellito dalla compec tizione sui costi, il modello europeo. Nei secoli l’Europa si è venuta riempiendo di strati di conoscenza, di istituzioni, di attitudini,  di gusto che ne fanno ancora un luogo uni­ co e speciale. Si è venuta riempiendo anche di esperienza, abituata com’è a gestire la conoscenza. Le sue produzioni hanno specificità che è difficile replicare da parte di chi non le ha dentro. È dunque immaginabile che per lungo tempo noi europei conserveremo un vantaggio rispetto a coloro che stanno appena acquisendo le nostre stesse co­noscenze e le nostre stesse tecnologie.

Gli economisti, e non solo loro, teorizzano un assioma: la produzione di futuro, e quindi la produzione di sviluppo, è anche frutto di accumulo. Un accumulo che si è formato nella storia e che facilita la produzione di quello che ancora non c’è. Ecco, noi abbiamo questo vantaggio. E per un po’ di tempo potremo ancora sfruttarlo. Non so quanto durerà questo tempo. Sarà un tempo difficile, perché dovremmo rinunciare a privilegi del passato e costruire nuovi equilibri per continuare ad avvalerci di quell’accumulo. Ma questa transizione è un’opportunità che non va sprecata. È una proroga che va sfruttata per prepararci alla fase successiva della storia in cui tutto cambierà ancora.

A quale fase mi riferisco? Si tratta dell’età in cui la no­ stra salvezza, se non la respingeremo, sarà un’Europa  nuo­ va in un mondo nuovo. Un’Europa  fecondata e rinnovata dall’arrivo e dall’integrazione  di altre -genti  che portano con sé le loro culture, le loro abitudini, le loro tradizioni e le loro aspettative.

Nel mondo  passeremo presto  da sei a nove miliardi di abitanti, ma se non sapremo aprire i nostri confini noi europei rimarremo circa 500 milioni. Saremo pochi e più vecchi. Solo l’apporto  di giovani non europei  potrà col­ mare il dislivello rispetto a realtà in forte sviluppo e darci nuove opportunità.  Ci sarà un nuovo equilibrio tra paesi che accolgono immigrati e paesi che forniscono emigrati perché non sono in grado di mantenere popolazioni in for­ te espansione. Nei prossimi decenni avrà rinnovato vigore un fenomeno che nei secoli passati era molto più intenso di oggi: è il fenomeno delle migrazioni e dei movimenti di popolazione. Gente che viene da lontano verrà a insediarsi da noi. Sta già avvenendo in questi anni, ma è una realtà che si intensificherà. E sarà un fattore positivo per la nostra capacità di essere protagonisti del futuro, proprio come lo è stato nel nostro passato.

In Europa gli immigrati – se li vorremo – entreranno in una stupenda macchina che trita le diversità e produce qualcosa di nuovo. Se siamo diventati quello che siamo lo dobbiamo proprio a questa capacità. Per secoli lo abbiamo fatto: arabi, slavi, ebrei, asiatici, tutti sono arrivati e tutti sono stati integrati, dando il loro apporto,  in una civiltà straordinaria. Noi italiani lo sappiamo bene. L’Italia è sem­ pre stata un porto di mare. Genti di tutto il mondo si sono insediate da oi portando le proprie tradizioni artigianali, culturali e artistiche. Capacità che sono state mischiate alle nostre generando qualcosa di nuovo. Se Brunelleschi face­ va cupole straordinarie, era perché metteva insieme stili e tecniche diverse: dal romanico del Sud al gotico del Nord, non senza un po’ di influssi arabi. Nel suo Dall’alba alla de­ cadenza, pubblicato in Italia nel2000, lo storico americano

Jacques Barzun ha scritto: «Il giorno che l’Europa perderà la capacità di mettere insieme le diversità che arrivano da lei producendo  qualcosa di nuovo, quel giorno l’Europa declinerà e il mondo stesso finirà per declinare».

FABIO SABATINIL’immigrazione non è un problema per l’economia, al contrario può essere una grande opportunità.  A un’economia  moderna  e dinamica serve una società moderna e dinamica. L’innovazione è frutto  di apporti  nuovi. E gli individui possono dare questo contributo  solo se sono accettati dalla società. Questo vale per gli immigrati, e non solo. Vale per l’apporto  delle donne, per quello degli omosessuali, per quello delle minoranze religiose.

La mancanza di coesione sociale provoca comportamenti non cooperativi da parte degli individui, che tendono a perseguire i propri particolari interessi o quelli di gruppi ristretti, come della famiglia a cui appartengono.  Questo comporta la diffusione di comportamenti di free riding, nel senso che le persone tendono a ingannarsi le une con le altre e ad avere scarso rispetto per la cosa pubblica.

Se, invece, c’è maggiore coesione sociale le persone limita­no i comportamenti  non cooperativi. Ciò favorisce la diffusio­ ne della fiducia. E gli studi empirici degli economisti provano ampiamente che la diffusione della fiducia è uno dei motori sia del buon andamento dell’economia, nel breve periodo, sia della crescita economica, nel lungo periodo,  e, più in generale, dei processi di sviluppo economico e sociale.

Nella storia – ce lo hanno insegnato i grandi studiosi delle civiltà – crescita e declino si alternano. La grande epopea di Roma finisce quando popoli più assetati di fu­turo si affacciano ai suoi confini. Ma molto prima, al finire dell’età repubblicana, gli storici coevi avevano già imma­ ginato un declino ormai inesorabile. Sbagliavano. Perché nei secoli successivi Roma avrebbe conosciuto i fasti più splendidi del suo impero. E questo proprio grazie alla sua capacità di integrare quei nuovi popoli che crescevano ai suoi confini. Un’integrazione nei gangli vitali dell’impero, ai vertici della sua amministrazione, nel cuore dello spirito della romanità. Dunque le civiltà declinano inesorabilmen­ te, ma a volte le crisi sono temporanee e una volta messe alle spalle c’è una nuova età dell’oro, una nuova giovinezza. Una nuova giovinezza, appunto. Qui però davvero dipenderà  da noi: dalla capacità di noi europei di non difenderci dalle diversità che arriva­ no, ma piuttosto  di mantenere la curiosità di averle con noi. Bisogna accoglierne la novità, la spinta verso un fu­ turo migliore, la capacità di lavoro e di sacrificio. Occorre assimilare parte di noi e parte di loro, e produrre  ciò che prima non c’era. Lo sviluppo è figlio di questa capacità di produrre  per il futuro ciò che prima non c’era. E questa capacità si alimenta di diversità.

Tutte le grandi civiltà della storia sono cresciute grazie alla loro caratteristica di essere aperte al mondo. Fiorivano sui fiumi, intorno ai grandi mari. E non solo perché così scambiavano più facilmente ibeni, ma soprattutto  perché entravano in contatto con idee, energie, culture nuove e diverse. Per le civiltà vale quello che vale per le famiglie. Lo abbiamo studiato nella nostra storia: i nobili facevano sposare le figlie con i cugini, a volte persino con i fratelli, per evitare guai con l’arrivo di estranei. Ma così finivano per indebolire il loro sangue. Il sangue rimane forte e vivo se è alimentato da diversità.

La peculiarità dell’Europa è stata sempre questa. Man­teniamola. Una volta che avremo esaurito il vantaggio che oggi abbiamo, potremo  rinnovare il nostro successo nel futuro solo se avremo saputo cogliere questa opportunità.

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