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La forza del Quarto capitalismo: metà del valore aggiunto dell’industria arriva da qui

Le medie imprese italiane sono la parte più dinamica del sistema produttivo e generano ormai il 29% del valore aggiunto dell’intera industria manifatturiera nazionale, ma la quota, già rilevante, sale ulteriormente e arriva al 40-50% se si tiene conto dell’indotto delle piccole imprese – Le intuizioni di Giorgia Foà, Becattini e Cuccia

La forza del Quarto capitalismo: metà del valore aggiunto dell’industria arriva da qui

Il Quarto capitalismo delle medie imprese sarà un punto di riferimento centrale nell’informazione economica e finanziaria di FIRST ONLINE. Ogni giorno i nostri riflettori saranno puntati sulle realtà più caratteristiche di questo segmento del sistema industriale italiano che ha una solidità patrimoniale e un dinamismo imprenditoriale spesso invidiabile ma che non gode della visibilità che meriterebbe. Poiché FIRSTonline è un giornale indipendente che si rivolge principalmente alla classe dirigente di questo Paese vogliamo contribuire a ribaltare la tendenza in corso e a porre in primo piano le storie aziendali, i problemi, le prospettive e i protagonisti del Quarto capitalismo in una rubrica, ben visibile fin dalla copertina e nella homepage, che non per caso si chiamerà IN VETRINA. Parleremo delle imprese che stanno nella fascia dimensionale intermedia e che si collocano tra le piccole aziende e i grandi gruppi, cioè di quelle società di capitali che, secondo la definizione di Mediobanca-Unioncamere, hanno una forza lavoro compresa tra i 50 e i 499 dipendenti e un volume di vendite fra i 15 e i 330 milioni di euro e anche di quelle della prima fascia più alta che comprende realtà aziendali con più di 499 dipendenti e un fatturato inferiore ai 3 miliardi di euro. Non si può però cominciare questo affascinante viaggio lungo i sentieri del Quarto capitalismo senza dare prima di tutto la parola a Fulvio Coltorti, il mitico direttore dell’Ufficio Studi di Mediobanca e già allievo di Giorgio Fuà prima di diventare collaboratore di Enrico Cuccia, che con le sue ricerche va considerato a tutti gli effetti il vero scopritore del Quarto capitalismo italiano. (Redazione FIRSTonline)

di Fulvio Coltorti

Lo sviluppo economico italiano si è distinto per alcune grandi fasi segnate da diversi modelli capitalistici. Il “Primo capitalismo” è riconducibile alle imprese che sostennero il primo decollo industriale nel periodo giolittiano (a cavallo tra fine 800 e primo 900). Erano imprese nate “grandi”, spesso public companies quotate nella Borsa Valori dove erano state portate dalle grandi banche miste (Banca Commerciale Italiana e Credito Italiano principalmente). Questo primo capitalismo cadde in gravi difficoltà in occasione della grande crisi del 1929; banche e industrie vennero salvate dallo Stato che per tale scopo costituì l’Iri nel 1933. In tale anno nacque il “secondo” capitalismo che si distingueva per la proprietà pubblica della gran parte delle imprese essenziali per lo sviluppo nazionale. Queste stesse imprese, insieme con gli altri grandi complessi rimasti sotto controllo privato, subirono una nuova grande crisi negli anni Settanta del secolo scorso. Ne derivò una ristrutturazione profonda che comportò dapprima un progressivo ridimensionamento del peso e del ruolo dei grandi gruppi e in seguito un ulteriore assottigliamento a seguito dei programmi di downgrading e di delocalizzazione.

La crisi della grande impresa rappresenta l’elemento distintivo dell’economia italiana e spiega perché il suo sviluppo abbia seguito sentieri diversi da quelli di altri paesi industrialmente maturi. Giorgio Fuà interpretò per primo questo diverso sentiero pervenendo all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso alla conclusione che per un paese a sviluppo ritardato come il nostro, una struttura “accentrata” nelle grandi città e nelle grandi fabbriche non era un passaggio obbligato sulla strada del progresso. I “fatti osservati” promuovevano con forza un’industrializzazione “diffusa” e le aree di riferimento erano quelle del Nord Est e del Centro. Lo chiamò modello NEC. Fuà immaginava due fasi di sviluppo: la prima era tipica dei paesi arretrati, dove le imprese stanno sul mercato grazie a bassi salari, poche imposte e nessun vincolo sull’uso del lavoro e sul rispetto dell’ambiente. Nella fase successiva i controlli sociali si fanno però più stringenti e le imprese debbono necessariamente puntare sui progressi della produttività per restare competitive. In questa fase contano due “leve”: l’organizzazione di sistemi integrati di piccole imprese (i distretti e gli altri sistemi produttivi locali) e la specializzazione nelle produzioni di nicchia o su misura. Questo è il terzo capitalismo, di cui i distretti costituiscono l’aspetto dominante. Giacomo Becattini li aveva “annusati” fin dalla metà degli anni Sessanta e in seguito ne formalizzò il modello definendoli entità socio-territoriali caratterizzate dalla “compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali”.

All’incirca negli anni Novanta del secolo scorso i sistemi locali hanno cominciato a subire trasformazioni a causa delle spinte competitive provenienti dai paesi emergenti. Questi, avvalendosi di bassi costi di produzione (tipici dei paesi late comers), attaccano i mercati internazionali di tutti i prodotti, avanzati e non avanzati, guidati dalle imprese multinazionali che vi delocalizzano fabbriche e tecnologie. Tra i mercati contesi vi sono quelli dei beni per la persona e la casa (tessile e abbigliamento, soprattutto) che costituivano il core business di molti nostri distretti. Le imprese distrettuali hanno reagito da un lato riorganizzando le filiere (non più ristrette al “luogo” di origine, ma sovente estese al di fuori di esso), dall’altro riqualificando i prodotti verso articoli a maggior valore aggiunto. Queste trasformazioni sono state operate soprattutto da imprese nate nei sistemi locali che hanno assunto caratteristiche organizzative e finanziarie più adatte al confronto globale. Sono imprese di dimensione intermedia, non troppo piccole né troppo grandi, che abbinano la flessibilità operativa alle competenze delle grandi imprese le quali, come detto, sono sempre più rare e lasciano inoccupate le preziose risorse umane che sbocciano dai territori. L’industria resta dunque diffusa, prevalentemente a controllo familiare, tuttavia con regole di governance che ne assicurano assetti manageriali evoluti, essenzialmente basati su modelli commerciali che puntano a nicchie di mercato. Le nicchie non sono anfratti casuali lasciati scoperti dalle grandi aziende che si ritirano, ma costituiscono un obiettivo perseguito attraverso lo studio dei mercati di sbocco. Esse assicurano lo sviluppo e l’accumulo di competenze specifiche che sovente divengono esclusive e configurano una vera e propria posizione di monopolio rafforzata da una forte componente di servizi. I dati delle nostre indagini dimostrano una elevata capacità competitiva a livello internazionale. Quest’ultima fase storica, dominata dalle imprese di dimensione intermedia, è quella che abbiamo convenzionalmente chiamato “Quarto capitalismo”. Un capitalismo che non trova più il collo di bottiglia delle limitate risorse finanziarie perché le organizzazioni industriali del mondo contemporaneo si basano sulla specializzazione dei mestieri e sulla costruzione di “sistemi” di imprese nei quali quei fabbisogni vengono frazionati. Dunque un’industria “leggera”, che consente di operare con strutture a basso consumo di capitale. Questi diversi modelli storici di capitalismo si combinano come stratificazioni successive nell’economia italiana contemporanea. I primi due, basati sulla finanza del mercato e dello Stato, sono in regresso; gli ultimi due, basati sull’apporto delle famiglie e sulla contendibilità, sono in espansione. In Italia gli ultimi due modelli risultano di gran lunga preponderanti, con un peso valutabile in due terzi della produzione manifatturiera. Essi fanno quindi “massa critica”, nonostante molti fatichino ancora a rendersene conto e indugino con i paraocchi di teorie superate dalla realtà. Nel sottoporre ad esame costante queste aziende, l’Area Studi di Mediobanca sviluppa il filo ideale che lega i pensieri di Giorgio Foà e Giacomo Becattini alle considerazioni pragmatiche di Enrico Cuccia. Il fondatore di Mediobanca vide in loro, fin dagli anni ’80 del secolo scorso, una gestione degli affari capace di rafforzare la democrazia trovando nella buona conduzione aziendale, e nell’autofinanziamento che ne deriva, la forza per evitare le viziose collusioni che invece hanno finito per minare la solidità dei grandi gruppi.


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Pubblicato in: News

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