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INTERVISTE DEL WEEKEND – Sapelli: “Non votare al referendum trivelle è un diritto”

INTERVISTE DEL WEEKEND – Giulio Sapelli, intellettuale di razza e storico dell’economia, non risparmia critiche al presidente della Corte Costituzionale e ai vescovi e difende il diritto di non votare al referendum del 17 aprile sulle trivelle che considera del tutto fuorviante: contrastando il referendum “difendiamo l’industria energetica italiana, l’innovazione, il lavoro e gli investimenti per le rinnovabili”

INTERVISTE DEL WEEKEND – Sapelli: “Non votare al referendum trivelle è un diritto”

“Il punto non è difendere la produzione del 3% di fabbisogno nazionale di gas e petrolio e neanche inseguire il sogno di un’indipendenza energetica, che non avremo mai. Votando No al referendum o non votando affatto difendiamo l’industria energetica italiana, l’innovazione, il lavoro e gli investimenti per le rinnovabili”. Giulio Sapelli, ordinario di Storia economica della Statale di Milano ed ex consigliere d’amministrazione dell’Eni, va dritto al punto nell’intervista rilasciata a FIRSTonline: sottoposte al referendum di domenica 17 aprile non ci sono le trivelle ma ci sono 35 concessioni di gas (soprattutto) e petrolio, di cui 26 produttive, sulle 69 totali a livello nazionale.

In generale, parlando del gas che è di gran lunga la risorsa più interessata dal referendum, l’Italia produce solo il 10% dell’energia che consuma, mentre compra il restante 90% dall’estero. “Difendere questo in sé sarebbe ridicolo, l’indipendenza energetica non ci sarà mai, neanche con le rinnovabili. Dobbiamo invece salvare l’impresa italiana, continuando a puntare sulle energie pulite: una cosa non esclude l’altra, anzi sono proprio le major a fare i maggiori investimenti. Dobbiamo permettere a Eni di continuare a lavorare in Italia, nel rispetto della tutela dell’ambiente, come già previsto, e continuare ad accogliere investimenti di gruppi stranieri come Total”.

Per chiarezza: se vince il No (o se non si raggiunge il quorum del 50%+1 degli aventi diritto) le concessioni per le estrazioni di petrolio e gas entro le 12 miglia dalla costa andranno avanti “per la durata utile del giacimento, e nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”, come prescritto dalla Legge di Stabilità 2016 e come auspicato da Sapelli. Se invece passa il , tutte le attività in corso saranno dismesse, a seconda delle scadenze che man mano interverranno. Con la perdita di un patrimonio industriale e di migliaia di posti di lavoro in un settore che dà lavoro nella Penisola a 11.000 lavoratori impiegati in attività dirette e ad oltre 20.000 mila nell’indotto.

Professor Sapelli, che farà il 17 aprile?

“Sicuramente non andrò a votare. Sono proprio per principio contrario ai referendum, perché il criterio della competenza dovrebbe avere la meglio su quello della maggioranza. E comunque votare è un diritto, ma è un diritto anche non votare”.

E’ dunque contrario all’intervento del presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, che ha detto che votare è un dovere?

“Assolutamente sì, Grossi ha fatto un’uscita da rabbrividire, un vulnus alla separazione dei poteri”.

E’ stato detto e ridetto che il referendum non sarà sulle trivelle: perché secondo lei deve vincere il No?

“L’Italia ha bisogno di ricostruire una cultura industriale, di permettere alle proprie grandi aziende, come in questo caso Eni e Enel, di lavorare in Italia, facendo innovazione e creando know how, impieghi, professionalità. Secondo alcune stime lo stop alle concessioni costerebbe decine e decine di migliaia di posti di lavoro, considerando l’indotto, nelle 9 Regioni (Puglia, Calabria, Sardegna, Basilicata, Campania, Marche, Molise, Veneto e Liguria) che ospitano i giacimenti e che hanno promosso il referendum”.

I sostenitori del Sì insistono però sui rischi ambientali, anche se l’Emilia-Romagna, che ha più concessioni di tutti (31 di cui 28 attive), ha ricevuto nel 2015 ben 9 bandiere blu dall’Unione europea e nel 2015 ha ospitato 25 milioni di turisti e non ha promosso la consultazione: chi ha ragione?
Sono rischi ambientali infondati, l’industria energetica italiana è molto controllata, sin troppo. L’inquinamento del mare che tanto preoccupa è dovuto soprattutto agli scarichi dei fiumi e all’urbanizzazione costiera. L’Emilia-Romagna ne è un esempio: la sua attività offshore vale da sola quasi mille aziende (e a decine di migliaia di lavoratori considerando l’indotto), ma a quanto pare né il mare né il turismo ne hanno risentito”.

Un report di Greenpeace afferma però che una quota importante dei campioni prelevati nelle aree delle concessioni offshore presenta alti livelli di sostanze inquinanti.

“Da quando in poi Greenpeace è affidabile? Oltretutto quel report fa riferimento a campioni prelevati in aree che non corrispondono esattamente a quelle delle trivellazioni. Io dico che le preoccupazioni delle comunità rivierasche sono anche comprensibili, ma non vanno strumentalizzate”.

Eppure la percezione di parte della popolazione è completamente diversa.

“Pochi sanno che l’industria chimica italiana è tra le migliori al mondo come rispetto dei parametri del Protocollo di Kyoto. La chimica è considerata simbolo di morte, ma non lo è affatto. Purtroppo in questo c’è stato un regresso della mentalità della popolazione, soprattutto della classe media che si è impoverita. La crisi, la carenza di lavoro e i salari bassi hanno portato al ritorno di una mentalità luddista, che finisce per andare contro il progresso”.

In generale i sostenitori del Sì motivano l’abbandono delle piattaforme con l’opportunità di ricorrere sempre di più alle energie rinnovabili, in grande espansione. Un recente rapporto dell’agenzia IEA ha rivelato che l’Italia, ad esempio, è il primo consumatore mondiale di energia solare, in proporzione ai suoi consumi elettrici complessivi. Lei che cosa ne pensa?

“Questo referendum non è contro le rinnovabili. Abbiamo ancora bisogno dell’industria energetica, e parallelamente è sacrosanto puntare sulle fonti pulite. Del resto sono proprio le grandi major, come Eni e Enel in Italia, a investire le maggiori risorse: potranno continuare a farlo se sarà loro concesso di proseguire la propria attività industriale e innovativa in Italia”.

Finita l’era degli incentivi, quale è la strategia giusta da seguire per le rinnovabili?

“I grandi investimenti privati, che saranno possibili se le società lavoreranno a pieno regime. Gli incentivi pubblici sono superati. Nel merito direi stop alle biomasse e punterei più sul sole che sul vento, anche per motivi paesaggistici. C’è molto da lavorare sulla biotermia, sullo sfruttamento del moto ondoso e soprattutto sul risparmio energetico, che è la prima energia “rinnovabile” e sul quale l’Italia è molto indietro”.

Nel dibattito di queste settimane si è parlato anche di concessioni ad aziende straniere, come per la Total a Tempa Rossa.

“Votando No si difende anche Eni dalla concorrenza di queste aziende. Per me la liberalizzazione del mercato energetico è stata negativa, ma una volta fatta è giusto che l’Italia possa attirare investimenti esteri. Con il No si difende anche questo: la competitività e la credibilità del Paese”.

Nell’appello per il No pubblicato da Il Foglio e firmato da Lei e da decine di imprenditori e addetti ai lavori, viene citato un suo libro del 2008 in cui dice che l’Italia ha bisogno di “una rivoluzione tecnologica capitalistica e liberale”. Che cosa intende?

“Quello che dicevo poco fa. Il problema dell’Italia è la produttività del lavoro: per questo servono più investimenti, che questi investimenti siano proiettati sull’innovazione e che torni a prevalere una cultura liberale, che non significa liberista, in cui al centro del sistema economico c’è l’impresa. E’ l’impresa che deve cambiare: deve crescere, produrre di più, investire”.

Lei è notoriamente cattolico: come commenta la decisione dei vescovi di sostenere il Sì?

“Evidentemente i vescovi non hanno capito il senso dell’ultima enciclica di Papa Francesco, Laudato si’, che dà sì un messaggio importante in difesa dell’ambiente, ma questo messaggio va contemperato con le esigenze dell’industria. E la Legge di Stabilità fa chiaramente riferimento al rispetto degli standard di sostenibilità ecologica”.

Concorda con chi sostiene che in realtà la vera posta in gioco del referendum è sui poteri in materia di energia tra Regioni e Stato e che, semmai, il terreno giusto per affrontare questa materia non è questo referendum ma quello di ottobre sulla riforma costituzione e del Titolo V?

“Sì, all’epoca fu una follia delegare questa competenza alle Regioni: ero nel cda di Eni ed espressi parere assolutamente contrario. E comunque lo ribadisco: il popolo non è abbastanza maturo per esprimersi su questioni così complesse, quindi non sono d’accordo neanche con quella consultazione. I referendum andrebbero aboliti”.

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