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Etiopia, “nel Tigray c’è un genocidio in corso”: parla l’opposizione ad Abiy

Grido d’allarme di 16 tigrini sparsi nel mondo: “La guerra non è finita e il premier Abiy si fermerà solo quando il Tigray sarà in macerie e chi è scampato ai suoi bombardamenti muore di fame e sete”.

Etiopia, “nel Tigray c’è un genocidio in corso”: parla l’opposizione ad Abiy

“La guerra non solo non è finita, ma è in corso un vero genocidio nei confronti del popolo tigrino: ci siamo addormentati in Etiopia e ci siamo svegliati nel Rwanda dei morti per machete”.

“Abyi si fermerà solo quando il Tigray sarà ridotto in macerie”.

“Quelli scampati ai bombardamenti adesso muoiono di  fame e di sete”.

“Ad Axum manca tutto”.  

“Non sappiamo che fine abbiano fatto i nostri parenti”.

Ci vanno giù pesanti i sedici ospiti tigrini di Firstonline collegati con noi da mezzo mondo, attraverso la piattaforma Zoom, per raccontare quello che sta accadendo “veramente” nel loro Paese, dopo che il premier Aby Ahmed ha lanciato il 4 novembre scorso un’offensiva militare contro la regione a Nord dell’Etiopia, il Tigray. Ci avevano cercato  dopo che ci eravamo occupati della situazione nel grande Paese del Corno d’Africa in un dialogo con l’ambasciatrice etiope in Italia: “Possiamo dire anche la nostra”? Ci chiedono tutti di non fare nomi, per loro non è sicuro. Possiamo però dire che sono tutti italiani di seconda o terza generazione e che sono collegati dall’Australia, dal Regno Unito, dall’Olanda e dall’Italia. Nove sono donne, hanno fra i 19 e 50 anni.

I loro commenti sono severi e preoccupati. Ricordano quelli espressi due settimane fa Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, tigrino anche lui, che durante la consueta conferenza stampa sull’andamento del Covid, aveva detto di sentire un “dolore personale per quello che sta accadendo nel mio Paese di origine”. Aggiungendo ”di non sapere nemmeno dove si trovassero molti dei suoi familiari tra i quali il fratello minore” e, fuori dall’ufficialità, aveva denunciato che in Tigray era in corso una carneficina.     

Come si è arrivati a tutto questo? Secondo le fonti governative il conflitto è nato dopo l’assalto armato dei militari tigrini a una guarnigione a difesa del nord del Paese, ma più probabilmente l’ordine è partito per definire una volta per tutte chi comanda a Adis Abeba. Non a caso l’esplosione della violenza è scoppiata dopo che il governatore del Tigray ha svolto le elezioni regionali nonostante fossero state rinviate dal governo centrale “causa Covid”. Lasciando che le vincesse – cosa più grave – il Fronte di Liberazione del Popolo Tigray, quel partito che ha avuto l’Etiopia nelle sue mani per trent’anni prima che Abiy arrivasse al potere e che oramai viene considerato dal premier il vero nemico. Un affronto che andava lavato con le armi visto che – secondo il governo – non si era riusciti a trovare nessun accordo attraverso la via dei colloqui.

Bisogna fidarsi sulla parola, perché la verità è che non è chiaro cosa sia accaduto e stia accadendo in Etiopia, i confini restano chiusi ai giornalisti internazionali e le uniche fonti sono quelle governative. Così è dalla tv di Stato che veniamo a sapere che domenica scorsa sono stati uccisi 16 leader del Fronte, fra cui l’ex ministro degli esteri Seyoum Mesfin, e che 8 membri del partito  sono stati arrestati, uno dei quali sarebbe l’ex  governatore della Regione, Abay Weldu. Dopo che era già stato catturato e condotto in prigione uno dei fondatori del Fronte, Sebhat Nega. L’attuale presidente del Tigray invece, Debretsion Gebremichael, risulta scomparso e sulla sua testa è stata messa una taglia di 200mila euro. Mentre dalla BBC veniamo a sapere che al confine con il Sudan si ammassano ancora 50mila profughi e che sono state uccise nelle ultime ore altre 100 persone. 

Uccisioni, arresti di politici, giornalisti stranieri tenuti fuori dal Paese e quelli “indocili” in prigione, come il free lance della Reuters e altri 7: non c’è che dire, l’immagine del giovane premier Nobel della Pace, guardato finora con rispetto e speranza in tutte le diplomazie occidentali, ne esce a pezzi. Nella conversazione con i nostri ospiti chiediamo la loro opinione sul premier e il nuovo corso etiope: nonostante tutto Abyi ha firmato la pace con l’Eritrea, ha liberato i prigionieri politici, ha annunciato libertà di stampa, un miracolo per un Paese africano.

Le posizioni non sono univoche.

La più dura: “La pace con l’Eritrea? Ma sapete che cosa è l’Eritrea? Un paese dittatoriale peggio della Corea del Nord. Io mi sono vergognato tutte le volte che il nostro premier ha stretto la mano a Isaias Afewerki, una specie di Hitler, che uccide, imprigiona e obbliga al lavoro forzato i suoi concittadini, obbligandoli a un servizio militare senza fine, da quando hanno 18 anni e fino ai 40”.

La più accomodante: “Ok, ma aspettavamo la pace da 20 anni, speravamo che con ora con Asmara fossero stabilite le relazioni commerciali, riaperti i confini, riallacciate le linee telefoniche e quelle aeree. Per me che ho padre tigrino e mamma eritrea, poteva essere una bella sorpresa. Di fatto il confine è rimasto aperto poche settimane. E’ stato solo un patto tra dittatori”.

La realista: “Siamo tutti un po’ eritrei. Non c’è stato nessun astio all’inizio. E poi la pace si fa con i nemici. Ma non sappiamo niente, il trattato di pace non è stato mai reso pubblico.  Cosa ci hanno guadagnato gli eritrei? Nulla. E noi tigrini? Un nemico in più”.

Il riferimento in questo caso è al fatto che le truppe eritree sono sospettate di collaborazionismo con quelle etiopi di Abyi nella caccia ai tigrini “ribelli”, evento che anche fonti di organismi internazionali danno per scontato. Un argomento portato comunque al sostegno della tesi che in Etiopia in realtà è in corso un regolamento di conti fra l’etnia tigrina, minoritaria, ma che negli ultimi trent’anni ha fatto il bello e il cattivo tempo; e quella oromo, maggioritaria, esclusa da ogni potere per lo stesso periodo. Anche se, secondo alcune fonti, proprio gli oromo sono stati i primi ad essere vittime dell’esercito federale. Degli amhara, che invece hanno occupato tutti i posti dell’establishment, si parla come i veri padroni dell’Etiopia. Il premier Abyi è per metà amhara e per metà oromo.

“Abyi è un poliglotta, ma solo in inglese parla di pace, in oromo e in amarico si sentono solo insulti contro i tigrini”, spiega uno degli ospiti sarcastico.

Per la cronaca in Etiopia, oltre 110 milioni di abitanti, si parlano 90 lingue, e fino all’arrivo di Abyi l’unica ufficiale era l’amarico. Ma è stato proprio il premier a introdurre per la scrittura di documenti ufficiali altre quattro lingue oltre all’amarico: il tigrino, l’oromo, il somalo e l’afar, con l’obiettivo di  costruire una società più integrata.

Per tornare al giudizio dei nostri ospiti sul nuovo corso, fra di loro c’è chi ha sempre guardato con sospetto alla politica del premier.

La testimonianza più chiara: “Subito dopo la nomina di Abyi sono tornato a casa in Tigray e già c’era un clima nuovo: paura, allarme, i parenti che mi dicevano cosa fare e cosa non fare. Non era mai accaduto prima.  Ho una famiglia numerosa da andare a trovare e quindi giro tutto il Paese in auto ogni anno, tranne stavolta per colpa del Covid e della guerra. Sono sempre stati viaggi fantastici e sicuri, ma l’ultima volta, nel 2018 appunto, mi hanno consigliato di restare a casa”.

In verità, il 2018 non è stato un anno normale per l’Etiopia, tutto è venuto al pettine: gli effetti drammatici sull’economia di una delle più grandi carestie abbattutesi sul Paese e quelli di tre anni di rivolte popolari dell’etnia oromo contro il governo di ispirazione tigrina guidato da Hailè Mariam Desalegn. La nomina di Abyi, prima volta di un oromo, segue queste cause. Insomma per i tigrini nel 2018 era suonata la campana.  E infatti i rapporti con il nuovo leader si erano raffreddati quasi subito, nonostante le apparenze. Estromessi da ogni potere, non avevano voluto far parte della nuova coalizione di governo lanciata da Abyi, “Il partito della prosperità”. Fino alla rottura sulle elezioni regionali, quelle che avevano voluto tenere nonostante il divieto. Una chiara disobbedienza, considerata, visto il contesto, una vera e propria dichiarazione di guerra.

“I tigrini detengono un record in tutta l’Africa: siamo il popolo che ha subito più bombardamenti dal proprio governo. Almeno tre in cinquanta anni: da Hailè Selassiè, negli anni Sessanta, da Menghistu, negli anni Ottanta e adesso da Abyi. Perché accade? Perché non ci pieghiamo alle ingiustizie, da qualunque parte arrivino”, spiega senza divertirsi uno dei sedici.  

Al di là dei giudizi politici, ci sono fatti inoppugnabili: nessuno dei nostri ospiti ha notizie su quello che sta avvenendo ai propri parenti e amici da oltre 70 giorni. Nonostante il governo sostenga che l’”operazione di polizia”, come viene definita la strana guerra civile, sia conclusa, i confini restano chiusi. Nemmeno le organizzazioni umanitarie possono portare soccorso.

Spiega uno degli ospiti: “Le linee telefoniche sono state ripristinate nelle ultime due  settimane, ma sappiamo che non siamo soli quando chiediamo notizie agli zii, ai nonni, agli amici. Ci limitiamo a chiedere: come stai? Sapendo che non potranno che rispondere: bene. Ti manca qualcosa? Nulla, è la ovvia risposta. E l’unico neo è quello che segue: però siamo un po’ preoccupati per il freddo. E noi capiamo che manca anche tutto il resto.”

Un altro aggiunge: “I miei genitori sono partiti come ogni anno a fine ottobre, dal 4 novembre non ho più notizie.”

Mentre il seguente incalza: “Mio zio a Makallè non riesce a mettersi in comunicazione con i parenti di Adis Abeba, temiamo il peggio”.

E un altro ancora si inserisce: “Una mia amica, con passaporto italiano,  è riuscita a ritornare in Italia dal Tigray solo dopo essere stata prima portata nella direzione opposta, ai confini con l’Eritrea. Un’odissea: è stata lasciata al freddo, a digiuno e al buio in un villaggio, e solo quando ormai era stremata le hanno permesso di raggiungere l’aeroporto internazionale.  Solamente perché è tigrina, gli altri passeggeri sono partiti regolarmente.  Al ritorno ci ha raccontato che a Makallè gli aerei volavano bassissimi per colpire meglio i civili”.

L’incontro si conclude con la domanda delle domande: c’è ancora speranza per un’Etiopia unita?

Gli ospiti questa volta sembrano unanimi: è stato passato il segno.

“Il laboratorio Etiopia è fallito. Non può esserci speranza quando si usano i carri armati e si bombardano i propri cittadini”, dicono uno a uno tutte e sedici. No, la guerra non è finita. E nemmeno l’”operazione di polizia”.  

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