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Edoardo Vianello: “La musica alleggerisce la vita”

INTERVISTA A EDOARDO VIANELLO, autore di successi memorabili dai Watussi all’Hully Gully e ospite del Maxxi per il ciclo dedicato al “Cantautore necessario” – L’intreccio tra musica e arte, i ricordi dell’Italia anni ’60 – “Oggi vedo un Paese pessimista, noi volevamo divertirci e fare divertire. I tagli alla cultura sono un fatto gravissimo, bisogna invertire la rotta”

Edoardo Vianello: “La musica alleggerisce la vita”

I Watussi, A-abbronzatissima, l’Hully Gully. Ma anche dondolare con il twist o indossare pinne, fucile e occhiali quando il mare è una tavola blu. O ancora scendere dal cocuzzolo della montagna con un paio di sci-sci. Tormentoni che hanno attraversato tutte le generazioni dagli anni ’60, quando furono scritti e interpretati da Edoardo Vianello (o scritti da lui per altri, come Rita Pavone), tra i primi esponenti della canzone d’autore italiana. Quella esplosa dal 1958 con “Nel blu dipinto di blu” di Domenico Modugno, diventata poi tra le canzoni italiane più ascoltate e tradotte all’estero, proprio come i Watussi di Vianello o Azzurro di Paolo Conte, e altre ancora.

Di questo si è parlato al MAXXI di Roma, nel primo incontro del ciclo sul “Cantautore necessario”, con ospite d’eccezione Edoardo Vianello e dedicato proprio agli albori del cantautorato italiano e al suo legame con l’arte. Nel 1958 infatti Domenico Modugno e Franco Migliacci scrissero il testo di quella canzone che talvolta chiamiamo “Volare” ma il cui titolo ufficiale non a caso è “Nel blu dipinto di blu”, proprio perché ispirato a un quadro del pittore Marc Chagall che rappresentava il tema del volo su uno sfondo blu. Nel 1962, poi, arrivò il primo grande successo di Vianello, romano “de borgata”, quasi 80 anni portati con la freschezza delle sue canzoni e, a proposito di arte, figlio di un poeta futurista: scrisse, insieme a Carlo Rossi, “Pinne fucile e occhiali”, canzone che nessuno di noi può non legare a un ricordo estivo o a qualche film che rievoca le atmosfere di quegli anni.

Gli anni Sessanta, che lei ha messo in musica con spensieratezza ed ironia, erano quelli del boom economico. Adesso è tutto diverso, ma lei come vede l’Italia di oggi?

“Vedo un’Italia pessimista, senza prospettive. In quegli anni c’era euforia, i cambiamenti arrivavano lentamente ma c’era la sensazione che si andasse verso il meglio, come poi è stato. Probabilmente eravamo mediamente più poveri, ma più felici perché avevamo meno esigenze. Da piccolo io sognavo di comprarmi una bicicletta, che è un oggetto accessibile anche a famiglie di livello economico modesto: oggi una persona povera sogna di avere una macchina, ma è una cosa molto più costosa e dunque questo gli dà la sensazione di essere ancora più povero. Diciamocela tutta: il benessere che abbiamo raggiunto da quegli anni in poi, che ora peraltro non c’è più, ci ha un po’ viziati”.

Forse oggi ci sarebbe bisogno di quella canzone d’autore di una volta, in cui si identificavano le famiglie perché raccontava la loro quotidianità. La musica può essere uno strumento di pace sociale?

“Io mi sono sempre ispirato alla famiglia, a raccontarla nel bene e nel male, anche se tengo a precisare che non ho mai fatto politica, il mio scopo era di divertirmi e di far divertire. La musica può fare molto, può alleggerire la vita delle persone ma solo se c’è già un clima di benessere generale: se una persona, come succede oggi, fa fatica a trovare lavoro o ad arrivare a fine mese, è difficile che possa dedicare il suo tempo ad apprezzare la musica ed è anche più difficile per un artista raccontare con spensieratezza una società infelice. Adesso, rispetto a 50 anni fa, ci sono anche più disuguaglianze: una volta i ricchi non erano così ricchi come ora e quindi non scattava così tanta insofferenza tra le classi più povere. Comunque la musica può essere strumento di pace ma non quella di oggi: prima ci si riconosceva di più, col cantautorato si arrivava al pubblico”.

Perché? Come è cambiata la musica?

“Molto e purtroppo in peggio. Oggi c’è troppa proposta e troppo spesso gratuita: questo fa sì che il sistema crei o grandi star internazionali o artisti destinati a non emergere mai, a non poter campare di questa professione. E se un artista non ha una serenità economica, difficilmente avrà il tempo, la fantasia e la spensieratezza per trovare l’ispirazione e scrivere testi che possano piacere al pubblico: per questo ci sono sempre meno cantautori e sempre più “personaggi”. Oggi emerge il personaggio, magari col look alla moda e i tatuaggi, non l’artista. Negli anni ’60 invece la musica era un fatto misterioso, c’era a stento la tv e non c’era Internet, il punto di arrivo era Sanremo ma dietro c’era tutta una gavetta, un contatto diretto col pubblico che ora non c’è più. Era però un contatto sporadico, intimo, fatto di concerti nei locali, mentre il grande pubblico ti conosceva prima con i dischi e solo dopo come personaggio televisivo. Si veniva conosciuti prima tramite i propri testi che tramite la propria immagine”.

Quindi c’era più spazio per tutti, rispetto ad oggi?

“Sì. Anche allora sfondava il famoso uno su un milione, ma tutti gli altri in qualche modo campavano. Adesso quell’uno su un milione può diventare una superstar e gli altri non combinare nulla e abbandonare il percorso artistico. E’ un po’ lo specchio della società, sempre più esclusiva: ci sono i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”.

Dal punto di vista musicale siamo dunque a un punto morto?

“Direi a un punto fermo, ma un po’ di fermento c’è. Va aiutato, accompagnato. Come? Finanziando la cultura. Per me la cultura è quella che arriva a tutti, che arricchisce tutti, non solo quella degli intellettuali. La musica, anche quella leggera, è cultura, ma servono investimenti. Prima ci pensavano i Comuni, le pro loco: oggi sempre meno e questo è un danno enorme. Ogni concerto non fatto penalizza l’artista, il pubblico ma anche l’indotto, perché non lavorano nemmeno elettricisti, fonici e tutto quello che c’è intorno a un evento musicale. I tagli alla cultura sono un fatto gravissimo: bisogna tornare a investire soprattutto per chi è rimasto fuori, non tanto per chi è già dentro al circuito”.

Ormai, tornando al discorso della televisione, a fare questo ci pensano i talent show.

“Non ne ho un’opinione così negativa. Rappresentano comunque una vetrina per lanciare i giovani, ma dovrebbero essere fatti più seriamente, con più attenzione alla qualità, ai testi e meno allo show e al business. Solo così si forma una nuova generazione di cantautori. Ai miei tempi c’era più disciplina, non solo nella musica ma in tutto: l’Italia ha bisogno di una conduzione più seria, di tornare a fare le cose come si deve”.

Se Vianello fosse un giovane cantautore oggi, che tipo di impatto avrebbe?

“Le dico la verità: secondo me, nonostante tutte le capacità che mi sono state riconosciute nel tempo, non sfonderei nemmeno per sogno. Come dicevo prima, cinquant’anni fa si dava mediamente più retta a tutti, c’era più equilibrio nel mercato. Tuttora, quando vengo invitato in televisione, mi si chiede di cantare esclusivamente i tormentoni dell’epoca: ma io nel frattempo, anche di recente, ho scritto tante altre canzoni, che nonostante il mio nome in pochi sono interessati ad ascoltare. Il pubblico vuole sentire “I Watussi” e dunque mi si chiede di cantare solo quella. E’ la logica commerciale, che mal si sposa con quella della canzone d’autore”.

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