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Come cambia la comunicazione delle aziende nell’epoca del 4.0

Guida ragionata per districarsi tra meme, branded content e messaggi sempre più orientati al social e al web – Si afferma un nuovo trend in cui la vecchia regola della trasparenza ha lasciato il posto all’obbligo della “viralità” – Il successo della parola “petaloso”

Come cambia la comunicazione delle aziende nell’epoca del 4.0

Dalla televisione al web. La migrazione è in atto da anni, più o meno silenziosamente, più o meno velocemente. Una migrazione di spettatori e ovviamente anche di contenuti: storie, narrazioni, eventi in diretta, ma anche e soprattutto pubblicità.

I numeri, in questo senso, parlano chiaro. Dei 503 miliardi di dollari raccolti dagli inserzionisti pubblicitari nel corso del 2015 il 32% è andato ai media digitali, contro il 30% della carta stampata e il 38% della televisione, che ha mantenuto una leadership che, però, sembra essere sempre più in discussione.

Già, perchè Facebook e Google incalzano e i numeri sono dalla loro parte: secondo gli ultimi dati sul social network fondato da Mark Zuckerberg verrebbero consumate 100 milioni di ore di video al giorno, numeri che, se sommati a quelli ancora maggiori di Google (via Youtube) vanno a formare una platea enorme di pubblico.

Il marketing online

Il marketing online viaggia su diversi binari. Il più tradizionale, diciamo il livello “base” per ogni grande azienda è quello della pagina social del brand, che può essere una pagina più “istituzionale”, una di quelle che conta, più che altro, sulla forza intrinseca del brand, oppure più ironica, una di quelle pagine in cui la parola d’ordine è “viralità”, la capacità di intercettare, usando anche gli strumenti adatti, il trend del momento, il sentiment del, per usare un’espressione orribile, “popolo di internet”, per inserire il marchio all’interno di una discussione calda.

Molti brand, per fare un esempio, in questi giorni si sono lanciati sulla storia del piccolo Matteo e della parola “petaloso”, con meme e stati ad hoc, cercando, in questo modo di creare un “ingaggio”, peraltro decisamente economico, nei confronti del brand. Tra le pagine Facebook più interessanti, in questo segno, si segnala quella di Ceres.

Dal product placement al branded content

Il product placement è il collocamento di un marchio e di un prodotto all’interno di un’opera, una pratica attentamente regolamentata e sempre più in uso sia al cinema che in televisione (nelle fiction, ma anche nei programmi di intrattenimento di diverso genere). Un collocamento che, in alcuni casi (vedere per credere la scena degli ads personalizzati durante la fuga del personaggio di Tom Cruise in Minority Report), riesce anche a diventare parte integrante di una storia, nonostante la propria natura pubblicitaria.

Il branded content rappresenta il ribaltamento di questo concetto: il marchio non entra all’interno dell’opera, ma è ciò che l’ingenera. Il video (o la serie di video) non invitano direttamente all’acquisto del prodotto, ma spesso rappresentano, sempre in forma virale, i valori e sui temi del brand da promuovere.

L’azienda, e i suoi prodotti, vengono così raccontati attraverso una storia che possa coinvolgere lo spettatore, invogliandolo (contrariamente a quanto avviene con le pubblicità tradizionali) a cercare quel determinato contenuto, su Facebook o su Youtube. Il brand diventa narrazione e il prodotto, quando c’è, diventa diegetico, una parte della storia.

Negli Stati Uniti, a partire dai video di Bmw ad inizio anni 2000, la pratica è sempre più diffusa ed affinata. Anche in Italia, però, questo genere di promozione digitale si sta facendo sempre più strada: molti degli youtuber di maggior successo (che possono garantire al marchio la circolazione e la diffusione video sulla proprie piattaforme social) sono stati coinvolti in operazioni del genere. Tra loro The Jackal, The Pills e Frank Matano, solo per citarne alcuni.

E sempre di più sono i grandi gruppi, nazionali o meno, che puntano sul branded content, da Vodafone a Huawei passando per le case produttrici di videogiochi. Il motivo è semplice: arrivare ad un’ampia fetta di pubblico, fortemente targettizzata, in una maniera più immediata ed economica rispetto a quanto si potrebbe fare con uno spot televisivo e con la possibilità di “stare sempre nel presente”, di cavalcare, grazie ai tempi rapidi del web, l’onda del momento.

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