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Banca Marche e quei crediti “inaciditi” dalle ispezioni della Banca d’Italia

Il caso di Banca Marche è singolare: la sua crisi è scoppiata all’improvviso dopo un devastante intervento della Banca d’Italia sui principi di valutazione dei crediti – Ma, oltre che per le responsabilità di Via Nazionale, la governance è andata in tilt per l’inefficacia dei controlli interni e per i limiti dei revisori, del cda e delle Fondazioni azioniste

Banca Marche e quei  crediti “inaciditi” dalle ispezioni della Banca d’Italia

Le banche rappresentano imprese tutt’affatto particolari. Funzionano con mezzi che risparmiatori e corrispondenti affidano loro, finanziano iniziative degli imprenditori da cui dipende lo sviluppo di un territorio, concedono alle famiglie il credito al consumo e i mutui ipotecari, creano esse stesse il credito. In tutto ciò è fondamentale la fiducia che riescono a guadagnarsi nel tempo. Il caso che mi propongo di esaminare riguarda la Banca delle Marche: ha sede nella mia città natale, me ne parlano spesso gli amici, è al centro di numerosi articoli comparsi in questi giorni sulla stampa nazionale. É nata nel 1994 dalla fusione di tre casse di risparmio (Pesaro, Macerata e Jesi) che iniziarono a lavorare 150 anni fa nella regione, un territorio denso di imprese e imprenditori di grande tenacia e capacità. La banca ha presentato nel giugno scorso il primo bilancio in rosso della sua storia; una perdita consistente (526 milioni a livello consolidato, coperti dalle riserve precedentemente accantonate) che ha ridotto il patrimonio in misura tale da richiedere, stanti i requisiti di vigilanza, il versamento di nuovo capitale di rischio.

La vicenda è assai singolare perché la perdita di cui si parla si è “manifestata” in un periodo relativamente breve (non più di sei mesi) senza che in tale lasso di tempo, pur notoriamente critico, siano accaduti fatti in qualche modo definibili eccezionali. Salvo l’inizio, nel novembre scorso, di un’ispezione della Banca d’Italia (non ancora conclusa) il cui intervento sui principi di valutazione dei crediti usati per la compilazione del bilancio 2012 è stato, parrebbe, devastante. In tale bilancio sono state appostate svalutazioni di prestiti a clienti per oltre un miliardo di euro; conseguentemente, il risultato d’esercizio, dichiarato attivo sino al primo semestre 2012, ha cambiato di segno nella misura sopra citata. Dunque, nel portafoglio vi erano crediti cosiddetti “inaciditi” che le valutazioni più recenti commisurano al 19,7% del totale delle esposizioni in essere. Crediti che in una precedente ispezione del 2011 non erano stati considerati così tanto potenzialmente pericolosi. Il 19,7% è una percentuale decisamente elevata, dato che la media in tempi normali non dovrebbe superare l’1% e in questa fase critica (dati R&S-Mediobanca riferiti ai nostri 5 gruppi maggiori, crème del sistema italiano) dovrebbe essere al di sotto del 10%. Una buona quota degli attivi deteriorati della banca di Jesi riguarda gli “incagli” e cioè le esposizioni verso affidati in temporanea situazione di obiettiva difficoltà che si ritiene possa essere superata in un congruo periodo di tempo. Ebbene, queste partite sono esplose nel 2012 a 3 volte il valore dell’anno precedente, al netto dei giri a sofferenze: pare quindi che stia qui la principale diversità di valutazione rispetto a quanto dichiarato  nel 2011 e nel giugno 2012 quando peraltro v’era un direttore generale oggi ritenuto da molti poco adeguato; su di lui il giudizio è ora sospeso, ma non erano state espresse riserve nelle precedenti ispezioni, cadute nel 2006, nel 2008 e nel 2010/11 e nemmeno in una comunicazione del 2003 nella quale – per quanto amia conoscenza –  la Banca d’Italia si dichiarava soddisfatta delle azioni poste in essere per rimuovere tutte le criticità segnalate in precedenza.

La Banca d’Italia sembra dunque avere disposto una “cura da cavallo” che si stenta ad attribuire alla sfavorevole congiuntura locale. Non è dato conoscerne le motivazioni, ma è ovvio che qui il detto “meglio tardi che mai” non si può applicare: se tale cura fosse stata imposta negli anni precedenti, insieme con un più appropriato richiamo alla prudenza sulla concessione dei crediti, il 2013 non si sarebbe chiuso in perdita e la politica degli affidamenti sarebbe stata più prudente. Ma ormai è fatta e tra le conseguenze vi è stato un leakage sulla stampa alimentato probabilmente da chi è stato danneggiato  dal “ripulisti” attuato nell’ultimo anno. L’attenzione del pubblico viene oggi attirata su fatti, sovente deformati, che ormai dovrebbero ritenersi risolti. Ma anche questo leakage potrebbe finire per essere positivo perché non fa che rimarcare l’avvenuta (eccessiva?) “pulizia”; la “prudenza” delle ultime valutazioni dovrebbe essere vista con favore da coloro che conferiranno il nuovo capitale di rischio volto a riportare il patrimonio al livello stabilito dalle regole di Basilea.

Ci si deve chiedere perché e come ciò di cui parliamo possa essere accaduto. Il “come” ha a che vedere con la politica di concessione del credito. Eccessiva la concentrazione nel settore immobiliare e delle costruzioni (il 30% degli impieghi contro una media dell’intero sistema bancario pari al 19%) e forse nei primi 50 clienti (7% del portafoglio). É il frutto della ricerca del profitto che, prima della grande crisi, era assicurato soprattutto dagli affari edilizi. Ma si tratta di un orientamento che distingue la banca da lungo tempo (e già distingueva le stesse Casse di risparmio dalla cui unione essa è nata); come pure i principali affidati che in buona misura sono costituiti da clienti di lunga data, la maggior parte dei quali – ovviamente in bonis -contribuisce ai proventi della gestione. I crediti cosiddetti deteriorati (sofferenze, incagli, scaduti e ristrutturati) risultano coperti da garanzie (in massima parte reali) per un valore di oltre quattro volte (per i cinque maggiori gruppi nazionali che usiamo come benchmark tale indice è pari a meno di due volte), il che riduce pur senza eliminarla la probabilità di perdita. In ogni caso, già a partire dalla seconda metà del 2012 la banca ha deciso di mutare strategia e tale linea è stata rafforzata dalla nuova direzione puntando sulla manifattura e le piccole e medie imprese, cioè su quelle attività che costituiscono i motori di sviluppo delle Marche.

L’aspetto più rilevante, a mio parere, riguarda però il “come” il guaio sia potuto accadere. Vedo almeno cinque “fallimenti” di governance: in ordine inverso di rilevanza, l’inefficacia dei controlli interni sulle azioni del direttore generale, il ruolo non del tutto comprensibile dei revisori, il malfunzionamento del Consiglio di amministrazione, l’incapacità delle Fondazioni azioniste di verificare la correttezza della gestione. Aggiungo la Banca d’Italia la cui vigilanza, calata a Jesi ogni due anni, avrebbe dovuto rilevare per tempo i malfunzionamenti in una delle prime 20 banche del paese che, per giunta, meritava ancor più attenzione avendo raddoppiato gli attivi nell’ultimo decennio.
Quanto detto ci porta diritti ad una questione più generale, ovvero al sistema dei controlli che vige sulle banche, non solo a livello italiano. L’unificazione della vigilanza in Europa non deve generare illusioni. La banca è un organismo complesso, difficile da vigilare di per sé e tanto più quando le dimensioni sono grandi e sotto questo angolo visuale la Bce non vanta alcuna competenza carismatica. Ritengo poi che i minori peccati delle banche italiane rispetto a quelle straniere nell’insorgere della grande crisi che tuttora ci perseguita siano riconducibili a pura fortuna. Tempo un anno e l’immondizia che i gruppi finanziari anglosassoni stavano riversando sugli investitori dei paesi nordici sarebbe arrivata anche nella penisola, con buona pace della nostra ingenua politica tendente a favorire, tramite fusioni indorate da costose consulenze di agenzie anglo-americane, la costituzione di organismi bancari sempre più grandi. Non mi dilungo sugli effetti di tale politica (puro “catoblepismo”; v. mio scritto sul Rapporto Unioncamere 2013, pp.199 e ss.), ma ricordo che è stata deleteria riguardo alle prospettive di sostegno e crescita dei territori. Ora occorre un deciso cambiamento di rotta, preservando gli istituti che sui territori resistono e “riaggiustando” in senso inverso i gruppi troppo grandi. Basilea III punta fondamentalmente ad aumentare il patrimonio delle banche, ma i casi sono due: o quel patrimonio sta ai debiti (depositi i risparmiatori e corrispondenti) nel rapporto ideale di 1:1, e allora è garantita la solidità, ma non siamo più in presenza di una banca, bensì di una società commerciale-finanziaria; oppure la banca lavora con la fiducia di clienti e corrispondenti e trasferisce all’economia reale il grosso della raccolta. É la fiducia il vero patrimonio della banca, la quale “deve” lavorare con i soldi degli altri per assolvere alla propria funzione. Chi non applica questo concetto (penso ai banchieri centrali riuniti a Basilea) frena lo sviluppo, senza rendersi conto che una crisi di fiducia spazza via in poco tempo qualunque istituto, quale che sia la misura del suo, comunque modesto, patrimonio.

Ma come assicurare il corretto funzionamento in un’impresa che lavora tipicamente ad alta leva, per giunta con principi di direzione legati alla massimizzazione della ricchezza di azionisti che di norma rischiano meno di un ventesimo del suo capitale? Il punto di partenza sono proprio gli azionisti; nel caso della banca di Jesi esiste un gruppo di controllo (tre fondazioni) che però si è rivelato incapace di selezionare amministratori competenti e professionalmente severi e non ha saputo seguire la gestione. Di fatto, esso ha dimenticato il proprio interesse (e quello del territorio) a che il bene posseduto (le azioni della Banca) fosse gestito al meglio. Il Consiglio di amministrazione che tale gruppo ha nominato, dal canto suo, ha “dimenticato” di esercitare quei controlli interni sulla direzione generale che avrebbero impedito l’inappropriata politica del credito. Queste relazioni conducono alla società locale e ai meccanismi della sua rappresentanza nelle fondazioni.

Ma nel caso Banca Marche vi sono apparenti malfunzionamenti anche nei sindaci e nella società di revisione: i principi di valutazione sono assai soggettivi, ma un miliardo di euro di rettifiche in soli sei mesi (o, forse, in meno di due mesi e cioè dall’arrivo degli ultimi ispettori di Via Nazionale nel novembre scorso) vanno ben oltre le valutazioni personali; d’altro canto, i criteri usati sino ad allora sugli stessi affari erano venuti dal consolidarsi delle precedenti ispezioni, tanto è vero che non risulta siano state sollevate riserve sull’operato dei revisori esterni. I quali, dando clear opinion su tutti i bilanci, non hanno sanzionato come imprudenti quelle valutazioni (sempre che i principi imposti dalla vigilanza nel 2012 siano ragionevoli e adeguati per una going concern). Non va trascurato che il grosso di queste rettifiche riguarda gli “incagli” che costituiscono il 52% dei crediti deteriorati contro una media del 37% nei cinque gruppi maggiori; incagli che potrebbero risolversi positivamente in un “congruo periodo di tempo” salvo che la banca, pressata dalle forze esterne, non adotti politiche più decisive che potrebbero finire per trasformarli in sofferenze tout court. V’è da preoccuparsi pensando a cosa succederebbe se queste politiche e queste valutazioni à la Banca Marche fossero applicate ai gruppi bancari maggiori e all’utilità di tali direttive per l’economia italiana e per le imprese (finanziarie e non finanziarie) sulle quali quei gruppi appaiono oggi inchiodati. É un momento, questo, nel quale le banche debbono tentare quanto possono per recuperare i clienti sui quali hanno lavorato con profitto per lungo tempo; se quei clienti fossero puniti e costretti alla sparizione verrebbero meno sia il motore della ripresa economica sia la funzionalità futura delle stesse banche.

Tornando al punto, occorre ora pensare a restituire vitalità ad una banca che nella sua regione resta la principale “autoctona” e deve ritrovare la sua “fiducia”. La merita? L’istituto ha rinnovato gli amministratori, ha sostituito i responsabili della direzione generale, ha perfezionato i controlli interni, ha designato un nuovo autorevole Presidente, ha approvato un nuovo piano industriale e sono in molti a ritenere che abbia il bilancio fin troppo in regola; è anche condotto con efficienza se si guarda al rapporto cost/income pari al 52% contro il 68,5% dei maggiori gruppi. Sono coinvolti 3.200 qualificati dipendenti,  550 mila clienti, 40 mila azionisti, un territorio pieno di idee e di iniziative: a mio giudizio, deve esserci una forte motivazione di tutti a rilanciare un’impresa necessaria allo sviluppo della regione. Solo una banca che mantenga radici locali potrà garantire il sostegno alle imprese marchigiane che quello sviluppo debbono produrre.

Occorre dire che per completare il lavoro manca poco e allo stesso tempo molto. Il poco riguarda le azioni dovute, ma già messe in atto per la maggior parte (come detto sopra), sulla conduzione della banca. Il molto riguarda i nuovi capitali da reperire il cui arrivo ridurrà, giustamente, il peso delle fondazioni “colpevoli” di mancata vigilanza. L’Italia è un paese che gli investitori esteri giudicano a rischio; ma non ci mancano i capitali da investire in affari promettenti e questo pare un momento favorevole per cogliere il turnaround di un’impresa che può tornare rapidamente al profitto. Tuttavia, le motivazioni speculative non debbono essere quelle che fanno decidere (anche se aiuteranno, soprattutto i piccoli azionisti); concordando con Piero Alessandrini (10 agosto scorso, su questo stesso giornale) ritengo che i principali interessati siano gli imprenditori locali che, difatti, si stanno attivando allo scopo. La perdita di autonomia della “loro” banca li priverebbe del rapporto privilegiato nell’acquisizione dei finanziamenti e depaupererebbe la regione delle risorse finanziarie generate dalla comunità; risorse di cui l’industria locale (la cui dipendenza dal credito bancario è tradizionalmente elevata) avrà certo bisogno nella prospettiva del 2020. Il tutto a patto che la Banca d’Italia conceda agli eventi di maturare con le giuste scadenze. Un’immissione di capitale di 300-400 milioni (questo sembra l’ordine di grandezza dei mezzi freschi richiesti) non è enorme, ma richiede qualche tempo in una fase economica critica. E non è il caso di ripetere l’errore del precedente governo di voler essere i primi della classe, qui in una corsa verso una presunta migliore patrimonializzazione che non può che rivelarsi deleteria per i nostri interessi. Non è in gioco la trasparenza, ma l’ingenuità. Basta guardare alla maggiore banca tedesca: il suo patrimonio, pressoché interamente assorbito da attivi inconsistenti (c.d. level 3), copre appena il 2% dell’attivo tangibile contro il 4% della bistrattata Banca delle Marche e il 3,6% dei 20 principali istituti europei (dati R&S-Mediobanca); eppure, sono diversi anni che il suo vigilante se ne sta tranquillo ad attendere una più che necessaria ricapitalizzazione.

Il 25 novembre 1857 la Banca d’Inghilterra concesse alla ditta di George Peabody un prestito di 800 mila sterline assistito come collaterale da titoli e dalla firma di 13 garanti. Quel banchiere sarebbe altrimenti fallito perché a quel tempo una “grande” crisi impediva ai suoi clienti americani di rimborsare i finanziamenti che aveva loro concesso. Il prestito della banca centrale venne restituito perché la ripresa economica consentì a quasi tutti i crediti “inaciditi” di tornare in bonis. Quella banca divenne la J.P.Morgan & Co, oggi la più importante degli Stati Uniti.

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