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L’abolizione del vecchio voucher falcidia i salari e rilancia l’economia in nero

Le conseguenze dell’abolizione del “vecchio” voucher sono un mezzo terremoto per il mercato del lavoro: 600.000 lavoratori hanno perso oppure hanno percepito in nero (in tutto) fra 180 a 300 milioni di reddito.

L’abolizione del vecchio voucher falcidia i salari e rilancia l’economia in nero

L’Osservatorio sul Precariato dell’INPS relativo ai primi 9 mesi del 2017 conferma in generale, in termini di flusso, la crescita occupazionale già segnalata dall’ISTAT in termini di stock. Aumentano di molto gli avviamenti rispetto al 2016 (stesso periodo): + 880.000, pari a un +20,1%. Aumentano anche le cessazioni (come logico, dato che la maggior parte dei nuovi avviamenti sono a termine) ma in misura decisamente minore: + 656.000 pari a +16,9%. Il che produce un saldo positivo di 224.000 posti di lavoro in più rispetto all’anno scorso: il risultato più alto da quando l’occupazione ha ripreso a crescere.

Un elemento in controtendenza, che necessita di qualche riflessione: per la prima volta dall’introduzione del Jobs Act c’è un saldo negativo tra avviamenti e cessazioni per i contratti a tempo indeterminato, anche se molto piccolo: poco meno di 10.000 unità. Non c’è  sostanzialmente aumento delle cessazioni (+ 1.700) ma un sensibile calo degli avviamenti (- 35.000). Crediamo che su questo dato influiscano due effetti combinati: da un lato la prosecuzione della flessione dovuta alla fine della decontribuzione; da un lato l’aspettativa per il nuovo incentivo previsto dal DEF, che induce probabilmente le imprese a rinviare al nuovo anno le assunzioni a tempo indeterminato.

Contrariamente a quanto temuto dai  detrattori del JobsAct, i licenziamenti non aumentano, anzi diminuiscono. Quelli per motivi economici diminuiscono di 35.000 unità per i lavoratori a tempo indeterminato e addirittura di 104.500 (pari a un – 50%) per i tempi determinati. Effetto collaterale di una situazione economica che si evolve positivamente e come tale viene percepita anche dalle aziende. Aumentano invece lievemente i licenziamenti per giusta causa o motivo soggettivo: + 1.200 per i tempi indeterminati e + 4.000 per i tempi determinati.

A parte l’esiguità dei numeri in questione, che non documentano certo di licenziamenti di massa, vale la pena formulare un’ipotesi che non ci pare campata in aria: una parte di questi licenziamenti sono concordati tra azienda e dipendente in luogo di dimissioni volontarie sia per consentire l’accesso al NASPI sia per ovviare al malfunzionamento della procedura in vigore. Ipotesi suffragata empiricamente dall’osservazione, riportata da Pietro Ichino sulla drastica riduzione del contenzioso giudiziario in materia di licenziamenti.

Come giustamente osserva Seghezzi (Bollettino ADAPT….) commentando i dati di stock, per la prima volta dall’inizio del post crisi diminuisce lievemente il tasso d’occupazione femminile. Spulciando nei dati di flusso vediamo che c’è un dato negativo importante circa le assunzioni di donne a tempo indeterminato (– 5%). Si tratta di 17.313 assunzioni in meno rispetto al 2016. L’unico dato che flette su un ordine di grandezza comparabile è quello del part time: – 40.000. Purtroppo non disponiamo della ripartizione di questo dato tra maschi e femmine, ma per approssimazione empirica pare di intravedere una relazione tra meno assunzioni a part time e meno assunzioni femminili. Il part time durante la crisi è stato uno strumento di flessibilità importante per le imprese e per l’occupazione femminile. Se le aziende lo marginalizzano adesso che siamo in ripresa, l’impatto rischia di essere negativo sull’occupazione femminile: come questi primissimi dati sembrano preannunciare.

Infine il boom dei contratti a chiamata: intuitivamente si tratta di una delle risposte del mercato alla (quasi) abolizione dei voucher. Nei primi 9 mesi del 2017 sono stati 37.300 gli avviamenti di contratti di lavoro intermittente a tempo indeterminato, e ben 319.200 quelle a tempo determinato: rispettivamente +15.500 (+ 71,7%) e + 182.000 (+ 133%) rispetto al 2016. A conferma della tesi circa i motivi contingenti della crescita di questa tipologia basta osservare che le variazioni 2016 su 2015 erano praticamente nulle, anzi leggermente in calo per i contratti a tempo indeterminato.

A dir la verità i contratti a tempo indeterminato sembrano rispondere piuttosto poco alle caratteristiche di occasionalità  specifiche delle prestazioni che venivano retribuite col voucher. Il tempo determinato sembra adattarsi meglio alla rapidità e alla variabilità di questo tipo di prestazione: le cessazioni di questi contratti sono state 220.000 nei primi 9 mesi, con aumento del 100% rispetto al 2016, che si rapporta coerentemente con il + 133% di avviamenti a testimoniare una volatilità che era caratteristica del mercato dei voucher.

Un’altra risposta del mercato può essere stata il ricorso a modalità intensive di part time, in questo caso certamente in modo esclusivo all’interno di contratti a termine. Occorre, prima di vedere le cifre, una precisazione: nel contratto part time vanno indicate date e orario della prestazione, la flessibilità va quindi programmata in  anticipo. Un contratto del genere può rispondere alle caratteristiche del lavoro occasionale solo se è di durata breve, altrimenti diventa una rigidità.

Per questa ragione, e perché non abbiamo i dati relativi alla durata dei contratti, i numeri del part time vanno presi con le pinze. Che comunque sono i seguenti: part time orizzontali nei primi 9 mesi 1.195.000 (+ 188.000, ma è la tipologia in cui è meno probabile che siano finiti gli occasionali); part time verticali 76.800 (+ 22.600); part time misti 155.000 (+ 45.000). E’ un po’ debole però l’evidenza di un nesso di causa-effetto tra abolizione dei voucher e aumento dei part time a termine: per i part time orizzontali il dato 2017 conferma una crescita costante dagli anni precedenti; un aumento relativo  più significativo c’è per i verticali e i misti, ma si tratta di solo 48.000 contratti una parte dei quali potrebbe avere assorbito lavoratori prima retribuiti a voucher.

Ora, nel 2016 sono stati 1.600.000 i lavoratori che hanno percepito voucher (poi parliamo di quanti e come), quindi empiricamente 1.200.000 nei primi 9 mesi (comprendono anche il periodo della vendemmia, perciò è del tutto verosimile). L’INPS calcola che con la nuova normativa saranno circa 300.000 a fine anno, più o meno 230.000 fino a settembre. Dei restanti 970.000 ammettiamo pure che 182.000 siano stati assorbiti dai contratti a chiamata a tempo determinato. Con ottimismo diciamo che l’incremento dei part time a termine non-orizzontali  ne abbia assorbito altri 45.000. Il numero dei dispersi è 743.000. Qualcuno potrà essere stato stabilizzato, magari con un contratto di apprendistato, ma sarebbe ridicolo illudersi che siano numeri significativi.

Il che ovviamente non significa che abbiamo quasi 750.000 persone a spasso. Facciamo un attimo caso alla composizione dei percettori di voucher: il 22% erano pensionati o giovani non ancora occupati, pari a circa 230.000. Una parte di questi apparterrà ancora alla platea di 300.000 nuovi voucher, un’altra parte potrebbe avere avuto uno dei 182.000 nuovi contratti a chiamata (ricordiamo che le regole del contratto a chiamata lo consentono in pratica solo a queste due categorie).

Il 55% dei percettori (circa 880.000) risultava assicurato all’INPS (quindi lavoratore subordinato o autonomo). Una parte di costoro potrebbe continuare a percepire voucher, ma solo per prestazioni effettuate presso imprese con meno di 5 dipendenti (da cui non possiamo aspettarci grandi numeri). Di questi 880.000 circa 300.000 percepiva voucher dallo stesso datore di lavoro con il quale, nel corso d’anno, aveva un contratto di lavoro. Ma per 230.000 casi l’assunzione seguiva al periodo retribuito a voucher, che fungeva quindi da periodo di prova.

Questi 230.000 escono quindi dal computo perché regolarmente assunti. In circa 70.000 casi il voucher integrava la retribuzione per prestazioni tipo straordinario, essenzialmente in casi di lavoratori con contratti part time. Ammettiamo pure che questi lavoratori siano rientrati nella norma (loro o i loro successori, perché quasi sempre si trattava di contratti a termine) e che gli straordinari glieli paghino in regola. Diciamo quindi che i 300.000 lavoratori di cui parliamo siano rientrati nella norma. Restano gli oltre 500.000 assicurati di cui perdiamo le tracce.

Qui ci sono lavoratori che percepivano voucher da un datore di lavoro diverso dal loro (il caso più frequente), lavoratori in NASPI, disoccupati senza sussidio, ecc.

Facciamo le somme: nella migliore delle ipotesi 300.000 persone sono in regola per continuare a percepire i voucher; 182.000 hanno avuto un contratto a chiamata; 45.000 un contratto part time a termine; 300.000 sono rientrati in regola col contratto di lavoro dipendente. Sono 827.000. Rapportati a 9 mesi 620.000. Poco più della metà dei percettori di voucher nei primi 9 mesi del 2016. E gli altri? Certo, poiché la media dei voucher percepiti era di 62, pari a poco meno di 500 € (e il 72% ne percepiva meno di 29) le cifre di cui discutiamo sono minime.

Ma lo erano anche prima, quando sembrava che il voucher fosse il  bug destinato a destabilizzare i salari. Alla fine dobbiamo prendere atto che la Lotta di Liberazione dal Voucher ha portato alla scomparsa di circa lo 0,116% del monte retributivo annuo riferito a circa   600.000 individui.  O sono soldi ritornati al nero (come probabile e molto semplicemente praticabile) o sono modesti guadagni perduti da persone che avevano il solo torto di volerle recepire in modo regolare. Diciamo che ci sono redditi tra i 290 e i 500 € che non sono più percepiti dai lavoratori o lo sono in nero.

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